L’altro discorso di Draghi
Trovata per caso la minuta di un ex allievo di Caffè a cui il neo presidente del Consiglio aveva chiesto suggerimenti, che poi non ha seguito, scegliendo invece quelli di Giavazzi. Le dichiarazioni programmatiche sarebbero state molto diverse
(pubblicato su Repubblica.it il 27 feb 2021)
Mentre veniva svuotato un bidone della spazzatura di Palazzo Chigi sono saltati fuori dei fogli che si sono rivelati essere una minuta del discorso che Draghi avrebbe fatto in Senato. Come spesso avviene in questi casi, Draghi aveva steso di suo pugno una parte e chiesto suggerimenti a due amici fidati: un vecchio compagno di studi che aveva seguito con lui le lezioni di Federico Caffè, di cui non facciamo il nome, e Francesco Giavazzi. Entrambi hanno elaborato dei testi da inserire in tutto o in parte nel discorso, poi Draghi ha scelto, sappiamo quale dei due. Grazie ad una nostra fonte segretissima siamo riusciti ad avere una copia dell’altra minuta: se avesse scelto quella, il discorso sarebbe stato molto diverso. Eccone i brani di maggior rilievo.
Signori Senatori,
Il primo pensiero che vorrei condividere, nel chiedere la vostra fiducia, riguarda la nostra responsabilità nazionale. Il principale dovere cui siamo chiamati, tutti, io per primo come presidente del Consiglio, è di combattere con ogni mezzo la pandemia e di salvaguardare le vite dei nostri concittadini.
Ma assolto questo compito, il dovere del governo torna quello che così bene è stato espresso nell’articolo 3 della nostra Costituzione: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
La pandemia ha notevolmente aggravato le disuguaglianze, ma queste già prima avevano raggiunto livelli inaccettabili. L’indice di Gini, una misura della disuguaglianza, senza gli interventi di aiuto sarebbe salito di 4 punti nel primo semestre 2020, dal 34,8 del 2019; anche dopo la scorsa crisi vi fu una salita, che lo portò a quello stesso livello (34,7 nel 2010). Ma l’aumento di questo indice durava da anni, anche prima della crisi del 2008: più precisamente dal 1991, quando era al 29,3.
Combattere le disuguaglianze è un compito che ci viene prescritto dalla nostra Costituzione, ma non si deve pensare che ciò sia dannoso – o quantomeno poco favorevole – per il buon andamento dell’economia. È noto, ce lo dicono studi dell’Ocse, che più aumenta la disuguaglianza, più si riduce la crescita, e l’esperienza italiana che ho appena ricordato è in piena sintonia con questa conclusione.
La prima cosa da fare per tendere a questo risultato è creare occupazione, anche con un cospicuo numero di assunzioni nel settore pubblico. Nel confronto con paesi comparabili – Germania, Francia, Regno unito – il numero dei nostri occupati nella pubblica amministrazione e nel settore dei servizi pubblici è fortemente sottodimensionato: secondo una ricerca di Adapt del 2018 sono 81 per ogni 1.000 abitanti, contro 134 della Germania, 133,3 della Francia, 151,5 del Regno Unito; in percentuale sul totale degli occupati sono il 22,03, gli altri paesi rispettivamente 27,53, 32,79 e 31. In numeri assoluti il gap è oltre due milioni di persone. La riforma della pubblica amministrazione è uno degli obiettivi che ci proponiamo, e sarà anche l’occasione per ridurre il più possibile questo gap, offrendo così anche opportunità di lavoro qualificato a tanti nostri giovani che oggi vanno all’estero, depauperando il nostro capitale umano e rendendo inutili le risorse spese per la loro formazione.
Naturalmente incoraggeremo l’occupazione anche nel settore privato. A chi pensa che le risorse siano scarse voglio ricordare una nota intervista di Keynes alla BBC nel 1942:
“Vi racconterò come risposi a un famoso architetto che aveva dei grandi progetti per la ricostruzione di Londra, ma li mise da parte quando si chiese: ”Dov’è il denaro per fare tutto questo?”. “Il denaro? – feci io – non costruirete mica le case col denaro? Volete dire che non ci sono abbastanza mattoni e calcina e acciaio e cemento?”. “Oh no – rispose – c’ è abbondanza di tutto questo. “Allora intendete dire che non ci sono abbastanza operai?”. “Gli operai ci sono, e anche gli architetti”. Bene, se ci sono mattoni, acciaio, cemento, operai e architetti, perché non trasformare in case tutti questi materiali?”.
L’architetto chiedeva dov’è il denaro per fare tutto questo. La Bce di cui ero presidente ne ha creato negli ultimi anni alcune migliaia di miliardi digitando sui tasti dei computer. Ma la banca centrale può crearlo, ma non spenderlo: spenderlo è compito dei governi degli Stati, visto che il settore privato non lo fa. E oggi abbiamo grande abbondanza delle risorse di cui parlava Keynes: ci sono milioni di disoccupati e sotto-occupati, e una enorme capacità produttiva inutilizzata.
Un altro fattore legato sia alla disuguaglianza, sia alla crescita e sia alla produzione è il livello dei salari, che in Italia sono troppo bassi. Lo dissi già da governatore della Banca d’Italia, parlando nel 2007 alla riunione della Società degli economisti: “In parità di potere d’acquisto sono fra il 30 e il 40% inferiori rispetto a Francia, Germania e Regno Unito”. E da allora la situazione non è certo migliorata. Certo, questo accade anche perché la produttività in Italia ristagna da un quarto di secolo, ma tra le due cose il rapporto di causa-effetto non va in una sola direzione, ma in entrambe: quando si tiene basso il costo del lavoro, le imprese hanno pochi incentivi ad investire per migliorare la produttività. Un grande economista come Paolo Sylos Labini invocava “la frusta salariale” per forzare le imprese a diventare più produttive.
Il ristagno dei salari deriva anche da un sistema di contrattazione che va cambiato, impedendo che vengano stipulati contratti di comodo tra organizzazioni non rappresentative – i contratti registrati al Cnel sono ormai più di 900 – e per far questo basterebbe estendere al settore privato, adeguandole per quanto necessario, le norme in vigore da anni nella pubblica amministrazione. Inoltre, la flessibilità è indispensabile al buon funzionamento dell’impresa, ma le riforme che si sono succedute negli ultimi vent’anni sono andate troppo oltre, trasformando la flessibilità in precarizzazione. Questo danneggia le persone, ma è anche un ulteriore disincentivo per le imprese a migliorare la produttività.
La pandemia ha messo in evidenza alcune debolezze del sistema economico internazionale come si è venuto configurando con la globalizzazione, ma non è questa la sede per approfondire un tale argomento. A noi ha mostrato quanto sia importante avere strutture di welfare diffuse ed efficienti, non solo ai fini della protezione sociale, ma anche per il buon funzionamento dell’economia. D’altronde, come ha ricordato anche il noto economista di Harvard Dani Rodrik, la dimensione del settore pubblico va di pari passo con lo sviluppo di un’economia.
Abbiamo pagato a caro prezzo l’indebolimento del sistema sanitario nazionale, fiaccato da anni di sotto-finanziamento. E la necessità di erogare tempestivamente i ristori sia alle persone che alle imprese ci ha fatto capire quanto sia importante disporre di strutture amministrative che non solo funzionino, ma siano anche in grado di affrontare situazioni straordinarie come quella che si è presentata. Nonostante alcuni ritardi, se non giustificabili almeno spiegabili data l’eccezionalità dell’evento, l’Italia non ha sfigurato nel confronto con gli altri paesi, certamente anche grazie all’impegno dei dipendenti pubblici, cosa che fa giustizia della sprezzante definizione che li vorrebbe tutti “fannulloni”.
Non posso non notare che tra coloro che a gran voce e con urgenza chiedono al settore pubblico i ristori ce ne siano non pochi che in tempi normali – ma qualcuno persino in questi frangenti – chiedono a gran voce una riduzione delle tasse e una netta riduzione del perimetro delle attività pubbliche. Il nostro sistema fiscale va certamente riformato, sia perché deve evolversi insieme ai cambiamenti strutturali dell’economia, sia perché reso disordinato da numerose misure prese negli ultimi anni al di fuori di una visione d’insieme. Non è questo il tempo per pensare a una riforma che riduca la pressione fiscale. Non penso certo a una riforma che imiti il modello della Danimarca, dove la pressione fiscale è al 44,9% mentre la nostra è al 42,4 (dati Ocse al 2019), e l’aliquota più alta, dopo le riduzioni decise negli anni scorsi dal governo conservatore, è al 56,1%, mentre la nostra è al 43. Ma anche una riforma a parità di gettito, se vuole alleviare il peso su chi è troppo gravato dal prelievo in relazione al suo reddito, deve necessariamente appesantirlo su chi ha la fortuna di far parte della quota più benestante, come d’altronde prevede la nostra Costituzione.
La lotta all’evasione va perseguita con tutti i mezzi che abbiamo a disposizione, senza dimenticare che si tratta di un problema anche di livello internazionale. Come presidente di turno del G20 mi impegno a promuovere un’azione di contrasto ai paradisi fiscali, che potrebbero essere facilmente eliminati se ve ne fosse la volontà politica.
Per quanto riguarda infine l’Unione Europea, di cui siamo tra i paesi fondatori, bisogna dire che la sua politica economica, da quando è entrata in funzione la moneta unica, non sempre è stata adeguata e anzi sono stati commessi degli errori, alcuni esplicitamente riconosciuti. La reazione ai danni della pandemia ha però dato importanti segnali di cambiamento. Sono in gestazione riforme di grande rilievo, come ad esempio la modifica delle regole stabilite con il Trattato di Maastricht e con altri successivi. L’Italia si impegna a fornire un contributo che tenga conto degli errori del passato e rafforzi il cambiamento, rendendolo non un’eccezione temporanea ma un nuovo modo di far funzionare l’Unione.
A realizzare le linee che vi ho esposto dedicherò tutte le mie energie e le mie capacità. Farò tutto ciò che sarà necessario per la crescita dell’economia e – soprattutto – del benessere sociale. E credetemi, sarà abbastanza.
NOTA CONCLUSIVA
Siccome c’è sempre qualcuno che prende tutto alla lettera è bene dirlo: la premessa in corsivo all’inizio di questo articolo è del tutto inventata. Invece, ciò che l’ipotetico allievo di Caffè avrebbe proposto a Draghi di dire nel suo discorso è del tutto coerente con la visione di quel grande economista.