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 Stato sociale

La scuola di qualità (certificata)

Che l’istruzione secondaria in Italia sia la parte più disastrata del sistema non ci sono dubbi. Ma invece di arrovellarsi a studiare riforme, che ad ogni cambiamento di ministro si disfano e si rifanno come la tela di Penelope, si potrebbero imitare gli esempi di eccellenza che già esistono: come l’Istituto Pacioli di Crema, per esempio, che ha ottenuto addirittura la certificazione di qualità “Iso-9000”

(5 mar 2002 - pubblicato su Summa)


Le riforme o i tentativi di riforma della scuola sono sempre stati accompagnati da feroci polemiche, scioperi degli insegnanti, manifestazioni degli studenti. Per cui, in fondo, si può dire che la più recente – quella dell’attuale ministro Letizia Moratti, che ha di fatto azzerato quella appena varata dal suo predecessore Luigi Berlinguer – sia passata in modo relativamente indolore. Non si può dire che sia stata una rivoluzione, ed è probabile che, quando cambierà l’attuale maggioranza politica, il futuro nuovo ministro annuncerà fin dalle sue prime dichiarazioni che la scuola ha bisogno di riforme.

Se ciò avverrà, è auspicabile che in questo ipotetico futuro vengano presi in considerazione alcuni fattori che, finora, nessun governo, qualunque fosse il suo colore politico, ha mostrato di tenere in gran conto.

Tanto per cominciare, i due problemi che non solo la scuola, ma tutte le amministrazioni pubbliche dovrebbero porsi, come sono costrette a porseli le aziende private se non vogliono essere cancellate dal mercato, sono quelli dell’efficacia e dell’efficienza. Efficacia: riesce la scuola – e in che misura – a fornire agli studenti un bagaglio culturale adeguato a permettere un buon inserimento nella società e nel lavoro? Efficienza: i mezzi che la scuola ha a disposizione per svolgere questo compito sono utilizzati nel modo migliore, in modo da raggiungere il massimo risultato compatibile con quel livello di spesa? Non vogliamo affrontare, qui, il problema se l’attuale livello di spesa sia sufficiente o meno, anche se meriterebbe qualche riflessione: secondo l’Istat, nel 1998-99, l’Italia ha destinato all’istruzione risorse pari al 5% del Pil, contro il 5,7 di Francia, Germania e Spagna, il 6,5 degli Stati Uniti e addirittura il 6,8 della Svezia e il 7,2 della Danimarca. Tra i maggiori paesi solo il Giappone spende meno (4,7) e il Regno Unito come noi (5%). Qui vorremmo però circoscrivere il ragionamento alle questioni metodologiche, dando per scontato che la quantità di risorse, se insufficiente, impedirà comunque di raggiungere risultati efficaci.

Il fatto è che non è stato introdotto alcun metodo, fino ad oggi, per verificare sistematicamente l’efficacia e l’efficienza della scuola. Una misura teorica dell’efficacia potrebbe essere quella di verificare quanti studenti portano a termine il ciclo di studi che termina con la secondaria superiore. Alcuni confronti internazionali non forniscono dati favorevoli. Secondo l’Istat, il tasso di iscrizione a 16 anni (quindi al terzo anno della scuola secondaria superiore) era, nel 1998-99, il più basso nell’Unione Europea (79%, contro, ad esempio, il 95 della Francia, il 97 della Germania, l’84 del Regno Unito, l’85 della Spagna e il 92 della Grecia), e anche di Stati Uniti (88) e Giappone (95). Non va meglio per il “tasso di conseguimento” (ossia quanti ottengono la maturità): nello stesso anno per l’Italia era 73, anche in questo caso tra i più bassi (Francia 85, Germania 92, Spagna 68, Grecia 57, Usa 78, Giappone 95). In Italia poi si iscrivono all’Università 40 giovani su 100, più che in Germania (28) e Giappone (37) e meno che in Spagna (46), Regno Unito (45) e Usa (45); ma poi quasi un terzo (28,5% nel 96-97) abbandona e ben l’88,4% si laurea fuori corso.

Quanto a misurare l’efficienza, si potrebbe costruire un indice abbastanza rozzo incrociando i dati sopra descritti con la spesa pubblica per l’istruzione, e anche in questo caso fare un confronto fra i vari paesi. Come si è visto per l’Italia la spesa rispetto al Pil si colloca nella fascia bassa rispetto agli altri paesi avanzati ma, ad un esame “ad occhio”, non risaltano clamorose differenze di questo rapporto fra noi e gli altri. Bisogna però sottolineare due punti: 1) un indice così generale (e generico) non è comunque sufficiente; 2) negli infiniti dibattiti che si svolgono da molti anni a questa parte questo problema risulta praticamente assente.

Non stiamo parlando, si badi bene, di “aziendalizzazione” della scuola, che è un’altra cosa e si riferisce alla sua finalizzazione principale all’inserimento nel mondo del lavoro anche a scapito della formazione di una capacità critica e di una cultura generale. La teoria dell’organizzazione non serve solo a far funzionare le aziende, ma qualsiasi struttura complessa. E controllare se i soldi vengono spesi nel migliore dei modi non deve essere prerogativa di un’azienda, che altrimenti fallisce; i soldi dei contribuenti non sono meno preziosi e anche per le strutture pubbliche si può parlare di fallimento, che è solo di diversa specie: un fallimento politico.

Per individuare sistemi e metodi che aiutino a perseguire l’efficacia e l’efficienza sono senz’altro utili studi e approfondimenti, ma esiste anche un sistema più semplice ed empirico: guardarsi attorno. E’ nell’esperienza di tutti coloro che a vario titolo hanno avuto a che fare con il mondo della scuola che ci sono scuole migliori e scuole peggiori, scuole ottime e scuole pessime. Un primo sistema potrebbe consistere semplicemente nell’individuare un certo numero di scuole “pilota”, verificare in che cosa la loro organizzazione e il loro funzionamento presentino delle specificità rispetto alla media e provare a diffondere anche altrove i loro metodi. In maniera più sofisticata si può chiamare questo sistema “individuazione e applicazione delle best practises”, ma la sostanza è quella.

Qualche anno fa, per esempio, fece parlare di sé un istituto che porta un nome certamente familiare ai lettori di questa rivista: il “Luca Pacioli” di Crema. Il motivo fu che, per la prima volta in Italia, un istituto scolastico aveva ottenuto la certificazione di qualità “Iso 9000” (v. La Repubblica – Affari & Finanza del 13.7.1998). Come mai aveva sentito il bisogno di sottoporsi a una procedura piuttosto complessa e niente affatto obbligatoria per una struttura pubblica?

La decisione fu presa per evitare l’autoreferenzialità, per avere un riscontro esterno, da parte di un certificatore indipendente e qualificato, di un lavoro svolto nel corso di parecchi anni e che ha fatto del Pacioli un modello assai interessante. Vediamone le premesse dalle parole di Giuseppe Strada, il preside che ha dato impulso a questo processo.

“La caratteristica principale di questo istituto, l’intuizione di fondo da cui è partito è stata quella di avere riposto grande fiducia nelle risorse umane presenti nella scuola e di investire su di esse, perché trovassero spazio di espressione e portassero il contributo della loro originalità e della loro ricchezza. Si è partiti dal riconoscimento della componente studentesca come risorsa positiva, e non solo come categoria da crescere e da formare. Lo stesso si è fatto con la componente docenti, a cui si è dedicata molta attenzione e si è offerto il massimo del servizio e del supporto possibile, anche attraverso corsi ed una formazione mirata, perché trovassero nella scuola un ambiente ricco e stimolante anche dal punto di vista professionale. Questi investimenti sono stati premiati”.

Gli studenti, dunque, prima di tutto: considerati “clienti” e quindi invitati ad esprimere bisogni e grado di soddisfazione. Il Pacioli ha adottato per primo una “Carta dei servizi”, quando nessuno era tenuto a farlo. E fin dal 1995 ha cominciato a sottoporre agli studenti (ma anche agli insegnanti, per quanto attiene al loro lavoro) dettagliati questionari (elaborati sulla base di indicazioni raccolte da focus group) per sondarne le richieste. I risultati sono stati poi utilizzati per la progettazione didattica.

Per lo studente che si iscrive al Pacioli scatta subito il “Progetto accoglienza”. Innanzitutto le classi vengono sottoposte a un test d’ingresso, per valutarne il livello e in base a quelle indicazioni impostare la didattica. Il test serve anche per individuare la situazione di ogni singolo studente in modo da tarare individualmente gli interventi necessari. La scuola ha approntato una gamma di possibili interventi con l’obiettivo di personalizzare il più possibile l’insegnamento. Ci sono “corsi per il riallineamento” (collettivi) per chi è risultato avere una preparazione sotto la media; i “workshop”, interventi a livello individuale e non sistematico di cui si può usufruire per superare problemi specifici; i “corsi di salvamento”, per gli studenti che nel corso dell’anno vengono giudicati in una situazione critica; a settembre i corsi per il recupero dei debiti formativi: il Pacioli aveva anticipato di qualche anno l’abolizione degli esami di riparazione. Ma ci sono anche “corsi di approfondimento” per la fascia di studenti all’estremo opposto, quelli migliori, che sono in grado di andare più avanti della media dei compagni.

Tutte queste attività vengono organizzate essenzialmente cercando di sfruttare nel modo migliore le cosiddette “ore a disposizione” degli insegnanti. Ma vengono coinvolti anche gli studenti più “anziani”, con funzioni di tutors, e gli ex allievi. Del resto il Pacioli da anni investe risorse economiche nella formazione dei rappresentanti di classe, considerati come veri e propri “quadri dirigenziali” della scuola.
Del “Progetto accoglienza”, tra l’altro, fa anche parte un ciclo di esercitazioni sulla metodologia di studio in cui si parla di come sottolineare, come sintetizzare, come costruire schemi, come preparare le interrogazioni, ecc. Il tutto è poi riassunto in un libretto che viene distribuito a tutti, dal titolo “Studiare è un mestiere da imparare”.
Alla fine di ogni anno si ripete, in ogni classe, il test di valutazione, per verificare i progressi fatti e gli eventuali deficit formativi; e in questo modo si crea anche una consuetudine che permetterà di affrontare con meno tensione la prova finale del corso, cioè l’esame di maturità.

Altre due iniziative, fra le tante varate dall’istituto, meritano una particolare segnalazione. La prima riguarda i criteri di valutazione, problema emerso come uno dei più sentiti anche dai questionari compilati dagli studenti. E’ importante che lo studente capisca in base a che cosa il docente lo giudica, e non meno rilevante è che ci sia una uniformità di massima, nel metodo, fra tutti i professori. Per rispondere a questa esigenza sono stati elaborati criteri di valutazione comuni a tutti gli insegnanti, che vengono esposti e spiegati nella Carta dei servizi.

La seconda iniziativa riguarda l’orario delle lezioni. Si è partiti dalla constatazione che il numero delle materie è elevato e che questo comporta, se si segue l’orario normale, una presenza in classe di vari insegnanti solo per due o tre ore la settimana. Questo, unito al fatto che ogni docente si trova ad insegnare in parecchie classi, impedisce di stabilire un reale rapporto con gli allievi, che diventa difficile anche ricordare, e di individuare per tempo eventuali problemi o difficoltà. Il problema è simmetrico dalla parte degli allievi, che si trovano fra l’altro a disperdere le ore di studio fra molte materie. Così sono stati varati, per le materie non di base, “corsi compattati”, ossia dedicando a queste materie più ore settimanali in un periodo più ristretto di tempo (in modo, ovviamente, che il numero totale di ore per materia resti lo stesso). I risultati sono stati incoraggianti.

Resterebbe da dire dei questionari che, come si è detto, vengono periodicamente sottoposti ad allievi e insegnanti, e per mezzo dei quali, tra l’altro, i primi possono esprimere valutazioni sui secondi. Ci limitiamo qui ad osservare che i dati di sintesi, quelli sulla soddisfazione o meno di studenti e insegnanti per la loro scuola, sono risultati negli ultimi anni molto buoni. Nell’indagine dell’anno ‘96/97, per esempio, il 27% degli studenti si dichiarava “abbastanza soddisfatto” rispetto alle aspettative iniziali, il 59% “soddisfatto” e il 3% addirittura “entusiasta”; su 35 temi specifici proposti, inoltre, solo in sei casi l’insoddisfazione era superiore al 50%.  Quanto agli insegnanti, alla domanda se ritengono che lavorare al Pacioli offra loro maggiori soddisfazioni professionali rispetto alle esperienze precedenti bel il 78% ha risposto  di sì.

Cerchiamo di sintetizzare le indicazioni che si possono trarre dall’esperienza del Pacioli per trarne delle considerazioni che possono avere un carattere generale.

- L’istituto si è posto il problema di come trasformare un servizio “massificato” come è quello dell’istruzione pubblica in un servizio che cerca di essere attento alle esigenze individuali, non solo di chi ha difficoltà, ma anche dei più dotati;

- Sono stati individuati metodi per facilitare lo studio (il “Progetto accoglienza” e per diversificare a seconda delle esigenze l’offerta formativa (i vari tipi di corsi di appoggio);

- Si è puntato ad evitare di creare un ambiente in cui la funzione formativa fosse affidata ad “impiegati” (gli insegnanti) che, più o meno di malavoglia, trasmettono burocraticamente una serie di nozioni standardizzate ad utenti passivi (gli studenti), coinvolgendo gli uni e gli altri nell’organizzazione dell’insegnamento e valorizzando le loro proposte ed esperienze;
- Si è approntata una serie di strumenti di controllo all’inizio e poi durante il corso di studi, in modo da verificare l’efficacia dell’insegnamento ed intervenire dove e quando se ne ravvisi la necessità;

- E’ stato ottimizzato l’impiego degli insegnanti (sfruttando le “ore a disposizione” con un aumento dell’efficienza;

- Vengono regolarmente monitorate le aspettative e i giudizi sui risultati ottenuti sia degli studenti (i “clienti”) che degli insegnanti (i “quadri”).

Si potrebbe continuare, e del resto l’esperienza del Pacioli non è stata esposta in maniera completa. Ma certo quanto si è detto basta a dare un’idea di quanto di buono si potrebbe fare, nel mondo della scuola, solo individuando ed estendendo le migliori pratiche che tanti istituti hanno per loro conto elaborato e applicato. Se poi si volessero premiare gli insegnanti migliori, si avrebbero gli strumenti per capire chi sono coloro che insegnano meglio, invece di dare aumenti a chi ha magari seguito molti corsi di aggiornamento, ma resta incapace di trasmettere tanto sapere ai propri allievi. Certo bisognerebbe entrare in un’ottica diversa, secondo cui la scuola non si migliora tanto disegnando grandi scenari sui vari cicli e sui programmi, quanto studiando sul campo i modi più adatti a farla funzionare.
 


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