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 Politica Riduci

La sinistra alla traversata
del deserto

Dopo il primo turno delle amministrative nessuno può cantare vittoria. Dai ballottaggi si potrà ricavare qualche indicazione di politica generale sul destino di Renzi in attesa della prova decisiva del referendum. Più di tutti però ha perso la sinistra, che ha davanti una lunga marcia: ma se non scioglierà alcuni nodi non arriverà da nessuna parte

(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 14 giu 2016)

Di solito, nei commenti post-elettorali, hanno vinto tutti. Dopo questa prima tornata delle amministrative, nello spazio vuoto che ci separa dai ballottaggi, si potrebbe dire al contrario che hanno perso tutti, o quasi. Ha perso sicuramente il Pd, che in nessuna grande città riesce a far passare il proprio candidato al primo turno e si deve accontentare di Salerno, rimasta fedelissima a Vincenzo De Luca tanto da tributare un 70 e più per cento al suo successore, e di Cagliari, dove però il sindaco è di Sel. Ma ha perso anche e soprattutto perché è crollato il progetto di Partito della Nazione: i voti della destra sono restati quasi tutti a destra o hanno alimentato l'astensionismo, l'esperimento di alleanza con Verdini è andato al di sotto di qualsiasi aspettativa. E infatti ora si assiste a qualche tentativo di recupero a sinistra, che sarebbe patetico se non trovasse attenzione in quella parte di sinistra che non ha mai abbandonato l'idea dell'alleanza con il Pd.

Ha perso la destra, con Forza Italia ridotta ai minimi termini, Fratelli d'Italia che non sfonda, la Lega che al meglio conserva le sue percentuali, ma in molte zone nemmeno quelle. E ha quantomeno "non vinto" il Movimento 5 Stelle, che pure, considerando che alle amministrative è sempre stato molto al di sotto dei risultati delle politiche, è il più titolato ad esprimere soddisfazione, anche considerando la probabile prossima conquista di Roma e l'essere riusciti a costringere al ballottaggio il sindaco uscente di Torino Piero Fassino, e anche lì chissà come andrà a finire.

C'è però un'area che ha perso più di tutti: la sinistra, bastonata persino dove si presentava con candidati di livello nazionale come Stefano Fassina e Giorgio Airaudo. Tranne eccezioni locali poco significative, la sinistra non ha avuto i voti né degli scontenti del Pd, né dell'area dell'astensione e nemmeno di tutti quelli che a sinistra del Pd sono sempre stati. Insomma, un disastro.

A guardare gli studi sui flussi dell'Istituto Cattaneo, a quanto pare i voti in uscita dal Pd sono andati in prevalenza al M5S (che però a sua volta in varie città ha subito perdite consistenti verso l'astensione), oppure al non voto. Alla sinistra praticamente nessuno. La "fedeltà" al Pd (cioè la percentuale di elettori che lo avevano votato nel 2013) è stimata dal Cattaneo superiore al 60%. Il che vuol dire che due su tre lo hanno rivotato, ma anche che un terzo di elettori li ha persi per strada.

Eppure la cosa che più stupisce è la prima, quei due su tre "fedeli". Fino agli anni '70, tra chi votava Pci, chi Psi e chi i partiti della sinistra radicale, era decisamente di sinistra circa metà dell'elettorato. "Di sinistra" vuol dire condividere una certa idea di società, un sistema di valori che, per quanto possa essere vago dal punto di vista sistematico, comprende comunque sicuramente la prevalenza della solidarietà rispetto alla competizione, del senso del collettivo rispetto all'individualismo, dello stare dalla parte del lavoro piuttosto che dell'impresa, della prevalenza dell'interesse sociale su quello della massimizzazione dei profitti, del bisogno rispetto al merito. Nulla di tutto questo si ritrova nell'attuale Pd, almeno se si guarda a quello che fa più che a quello che dice. E allora, delle due una: o la maggior parte di quella metà dell'elettorato ha subito una profonda trasformazione culturale, oppure ritiene che il Pd rappresenti ancora quei valori, almeno sostanzialmente, nonostante che i suoi atti gridino che non è così.

Certo, una notevole parte di quel "vecchio" 50% è andata ad alimentare l'astensionismo crescente, un'altra parte si è rivolta al M5S. Ma continua a votare Pd un consistente numero di persone che si definisce e si sente "di sinistra" (nelle sue varie declinazioni: riformista, moderata, e quant'altro). Un numero imprecisato ma certo consistente di queste persone considerano il Pd "la sinistra che c'è" (per dirla in modo colloquiale: quello che passa il convento) e quindi mantengono la loro adesione anche se non tutto le convince. Sono però sempre di meno, come sempre meno sono quelle che - sul fronte opposto - continuano a votare per i partiti moderati tradizionali, che perdono ancor di più verso l'astensione o verso formazioni xenofobe o di destra estrema. I partiti socialdemocratici che hanno sposato il liberismo e quelli della destra "istituzionale" propongono le stesse politiche, differenziandosi solo su aspetti quali i diritti civili o le questioni etiche. Ma quelle politiche, all'ottavo anno di crisi economica, fanno sì che l'emorragia di consensi non si arresti. In tutta Europa, dunque, si riescono a formare maggioranze solo se i due partiti liberisti uniscono le forze nelle "grandi coalizioni" che di fatto sono sempre meno grandi e che in vari paesi (Grecia, Portogallo, Spagna, prossimamente la Francia, mentre nel Regno Unito il governo si è salvato solo grazie a un sistema elettorale che se ne infischia della rappresentatività) non riescono più a dar vita a governi.

Chi perde di più in questa situazione sono i partiti ex socialdemocratici, parecchi dei quali sono scomparsi o sono su quella strada: chi boccia la politica liberista cerca alternative altrove, nei nuovi partiti di destra o di sinistra o, come il M5S, di orientamento indefinibile ma comunque di netta opposizione alle forze politiche al potere.

Il Pd non ha ancora imboccato la via del declino grazie a una serie di circostanze positive (per lui) indipendenti dalla sua azione: lo sfaldamento di una destra che era solo il comitato d'affari del suo fondatore e leader, la mancanza a sinistra di figure carismatiche come quella di Tsipras in Grecia o di Iglesias in Spagna in grado di rinnovare l'appello a sinistra, la fedeltà elettorale di quello che era stato un partito fortemente identitario, il Pci, che in una parte degli elettori ancora regge nonostante la mutazione genetica del partito. Ma evidentemente anche Renzi si rende conto che queste condizioni non dureranno per sempre. Di qui l'invenzione di una legge elettorale che trasformerà una minoranza in maggioranza, nonostante il rischio che a raccoglierne i frutti possa essere il M5S.

E dunque, a questo punto, come vadano i ballottaggi è abbastanza ininfluente. La partita vera è quella del referendum di ottobre, com'è testimoniato anche dal fatto che Renzi ha cominciato una martellante campagna da più di sei mesi prima. Nessun significato si potrà trarre dal voto di Milano, dove ci sono due candidati indistinguibili e dove semmai quello più a sinistra è quello che corre per la destra. Poco o nulla anche dal voto di Roma, dove il Pd ne ha fatte più di Carlo in Francia, a meno che, contro i pronostici, dovesse avere la meglio sulla candidata 5S: vorrebbe dire che la sindrome di TINA (there is no alternative) ha ancora una certa presa. Più interessante, invece, lo scontro di Torino: se la candidata 5S dovesse rimontare lo svantaggio e prevalere su Fassino, per Renzi sarebbe un pessimo segnale: vorrebbe dire che tutte le opposizioni sono in grado di compattarsi per farlo perdere, cosa che potrebbe ripetersi con il referendum o comunque, se la riforma elettorale alla fine passasse, in un eventuale ballottaggio alle politiche tra Pd e 5S.

Resta la questione della sinistra, che è di fronte alla sua traversata nel deserto. Ma il primo problema è che i pochi carri su cui conta non sono ancora riusciti a formare una carovana, perché il punto d'arrivo è ancora nel vago, sul percorso non c'è accordo e ci sono vari pretendenti al ruolo di guida. Vanno sciolti vari nodi: il Pd - così com'è - è ancora un interlocutore o si riconosce che è passato definitivamente nel campo politico opposto? Euro o no? Quale politica nei confronti dell'Europa? Il Terzo settore è un soggetto da incoraggiare o è ormai diventato il cavallo di Troia per la privatizzazione dello Stato sociale? Esiste la disponibilità ad unirsi, per esempio su una carta dei valori, lasciando poi alle primarie il compito di scegliere quale componente dovrà guidare il futuro partito? Se non risponderà in modo convincente a questa domande, la sinistra quel deserto non lo attraverserà, e i suoi spezzoni resteranno a vagarvi dispersi.


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