Licenziati per profitto/2
Gli economisti Nicola Acocella e Riccardo Leoni intervengono per spiegare la genesi della sentenza della Cassazione sui licenziamenti. Genesi che va ricercata nella teoria neoclassica tradotta in interventi legislativi, come quello del governo Monti-Fornero (e il successivo Jobs act). Una strategia che sta mettendo a rischio i sistemi democratici
(pubblicato su Repubblica.it il 10 gen 2017)
Sulla sentenza della Cassazione di cui abbiamo parlato nell'articolo precedente due autorevoli economisti hanno inviato questo intervento, che è senza dubbio un contributo molto utile alla comprensione del processo politico, culturale e legislativo che ha condotto a questo esito.
di Nicola Acocella e Riccardo Leoni
Caro Carlo,
concordiamo con diverse delle tue argomentazioni. Nella frase-chiave che il tuo articolo riprende, potrebbe colpire - per chi non è stato molto attento alle riforme introdotte da Monti e Fornero - il passo della Corte di Cassazione secondo cui fra le ragioni che il datore di lavoro può addurre per licenziare un lavoratore "non è possibile escludere quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività dell'impresa". Vorremmo richiamare alla tua attenzione e quella dei tuoi lettori quanto scrivevamo nel 2012 (su Quaderni di Rassegna Sindacale - Lavori, n.2) a questo proposito:
Solo la giurisprudenza sarà in grado di fornire elementi e casi per una valutazione concreta di questa nuova formulazione della licenziabilità di un lavoratore. Stante il fatto che il giudice non può entrare nel merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive del datore di lavoro che licenzia (pena l’impugnabilità della sua sentenza), non sembra difficile immaginare la possibilità concreta di aggirare le clausole normate, facendo rientrare in questa fattispecie (il licenziamento economico legittimo, o preteso tale) tutte le ‘furberie’ (finte giustificazioni economiche, al posto di quelle soggettive o discriminatorie, così come temporanee esternalizzazioni fatte ad arte), che consentono all’impresa, se va male davanti al giudice, di cavarsela con un’indennità risarcitoria. Questa discrezionalità (economica) consentirà d’ora in avanti alle imprese di sostituire anche lavoratori cinquantenni (che costano relativamente di più) con venticinquenni (vale a dire, padri contro figli), di sostituire Tizio con Caio, adducendo nel primo caso l’economicità dell’operazione, nel secondo la minor bravura del lavoratore sostituito rispetto al neoassunto. Quali motivi più economici di questi sarebbero ‘manifestamente fondati’ per rendere legittimo il licenziamento economico? L’idea di fondo è quella che d’ora in poi la concorrenza che i lavoratori si faranno nella ricerca del lavoro li indurrà ad accettare un salario via via minore (unitamente ad altre condizioni lavorative) pur di ottenere un posto di lavoro.
La Cassazione non ha fatto altro che dare corpo e sostanza a quella visione neoclassica del legislatore, guidato in quei giorni dai teorici-politici-ideologi Monti e Fornero, secondo cui la massimizzazione del profitto (impostazione micro) risolve quasi sempre il problema della disoccupazione, purché venga rimosso ogni impedimento (quale l'art.18 dello Statuto dei Lavoratori) al libero sprigionarsi della competitività fra i lavoratori, ogni ostacolo alla sostituibilità tra occupati costosi e disoccupati meno costosi. E' la logica della 'domanda di lavoro' della teoria neoclassica mainstream, secondo cui la concorrenza tra occupati e disoccupati abbassa il salario, da cui conseguirebbe - secondo i dettami di quella teoria - una riduzione nell'uso del capitale tecnologico e quindi un aumento dell'occupazione. Dettami che per Monti-Fornero & C. costituiscono, per loro formazione culturale ma soprattutto per 'convinzioni personali', una legge ferrea del funzionamento del mercato del lavoro. Forse il liberale macroeconomista Keynes non è stato letto, o è stato rimosso, o non è stato sufficientemente compreso (così come gli insegnamenti di altri liberali, quali Ciampi, Einaudi, Coase, Solow), poiché altrimenti ci si dovrebbe ricordare la 'vendetta del mercato' che una compressione dei salari genera sul lato della domanda aggregata dei beni.
E i costi sociali? E il secondo comma dell'art. 41 della (salvata) costituzione che tu richiami? Sono i costi del progresso, sono incidenti della storia, per loro, che risolvono con qualche espressione di rammarico e con qualche lacrima. Per noi? Ben venga il referendum sul reintegro dell'art. 18, sull'abrogazione dei voucher, sull'introduzione della responsabilità solidale delle ditte appaltanti e subappaltanti nei confronti dei salari e dei contributi da versare ai loro dipendenti.
Come Acocella e Leoni chiariscono bene, la sentenza di cui parliamo non è altro che la conseguenza giuridica di un'impostazione teorica, quella della scuola neoclassica che comunemente ricomprendiamo sotto il termine "neoliberismo", che è stata tradotta in interventi legislativi. E' l'impostazione dominante tra gli economisti fin dagli anni 80 del secolo scorso, che ha informato le politiche economiche di tutti i governi e che ha generato la situazione nella quale ci troviamo, con l'impennata delle disuguaglianze e la svalutazione del lavoro.
La "vendetta del mercato" di cui parlano i due economisti è puntualmente arrivata, con la crisi esplosa nel 2008 e tuttora non risolta, tanto che si parla di "stagnazione secolare". Nemmeno questo, però, è stato sufficiente a far riconoscere quanto quella impostazione - da cui nel frattempo si erano fatti conquistare anche i partiti socialdemocratici - sia sbagliata. Non è (solo) questione di ottusità ideologica: questa situazione è svantaggiosa per la grande maggioranza dei cittadini dei paesi di più antico sviluppo, ma molto vantaggiosa per le minoranze in cima alla piramide sociale di quei paesi, che si appropriano di quasi tutto l'aumento del reddito prodotto. Quelle maggioranze non trovano più rappresentanza politica nei partiti che tradizionalmente rappresentavano i loro interessi: di qui la crescita dei nuovi soggetti politici oggi generalmente definiti "populisti". Se non ci sarà in tempi brevi un deciso cambiamento di rotta, dunque, il problema non sarà solo un migliore funzionamento dell'economia: quello che è a rischio è la stessa sopravvivenza dei sistemi democratici.