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 Finanza

Telecom, l'uovo che non si ripara
Il piano di ristrutturazione proposto da Roberto Colaninno ha reso furiosi gli investitori italiani ed esteri, perché non è certo favorevole agli azionisti di minoranza. Ma bisognerebbe riflettere sul fatto che il danno è stato fatto prima, con una scalata che ha caricato di debiti la società

(pubblicato su Affari & Finanza il 4 ott 1999)

Il gran calderone del caso Telecom ribolle per l'indignazione degli investitori italiani ed esteri e per le repliche offese del Grande Scalatore, Roberto Colaninno, degradato a "rapinatore" dal Financial Times. Ma Colaninno, sottoposto all'Ordalia, il “giudizio di Dio”, ha perso: il Dio Mercato, a cui si era appellato con successo al tempo della scalata, gli si è rivoltato contro e ha fatto crollare in Borsa tutti i titoli coinvolti, seppellendoli sotto una montagna di vendite.

Può sembrare che il discorso possa chiudersi qui: Colaninno sta tentando una rapina, va fermato e probabilmente sarà fermato, o dal Tesoro con la sua “golden share” oppure dall'assemblea straordinaria di Telecom che dovrebbe approvare l'operazione, dove basterà un 25% del capitale che voti contro per bloccarla. E invece sarebbe un errore chiuderlo, il discorso: sarà bene rifletterci sopra con grande attenzione, qualunque sia lo sbocco della vicenda.

Il mercato. Questo Dio dalla mano invisibile è come Apollo: quello che dice va interpretato e, soprattutto, bisogna capire bene di cosa parla. Nel caso delle società quotate l'Apollo finanziario parla di una sola cosa: dei profitti o delle perdite degli investitori, qui ed ora. Se ne infischia, il mercato, di quello che accadrà nel lungo termine. I gestori vengono giudicati ogni anno, ogni trimestre, ogni giorno sulle performance realizzate rispetto ai benchmark, gli indici di paragone per capire se sono più o meno bravi degli altri; e da questo dipendono le loro carriere, i loro stipendi e bonus o magari il loro licenziamento.

Quando si è trattato di scegliere tra il difensore Franco Bernabè e l'attaccante Roberto Colaninno hanno scelto il secondo per un motivo semplicissimo: il guadagno immediato, sicuro, in contanti e carta subito commerciabile era maggiore. Era chiaro fin da allora che quella scalata a Telecom non avrebbe fatto bene, che era costruita su una montagna di debiti che la società stessa sarebbe stata chiamata ad alleviare sottraendo risorse al suo sviluppo. Intanto, però, si guadagnava. E allora, evviva l'opa.

Oggi il mercato si è rivoltato soprattutto per un motivo. Tutti si aspettavano una fusione fra Telecom (con dentro Tim) e Tecnost, la società scalatrice indebitata per l'operazione. Così, la quotazione in Borsa di Tecnost incorporava queste aspettative. Se dunque si toglie Tim da Telecom per metterla dentro Tecnost e si pagano gli azionisti Telecom con azioni Tecnost sopravvalutate, si fa loro un pessimo scherzo. Tra l'altro, per molti anni non vedranno nemmeno i dividendi dei ricchi utili prodotti da Tim, destinati a pagare i debiti della nuova controllante, e per di più vedono sottratto a Telecom il business più redditizio e di sicuro sviluppo.

Il piano industriale. Gli azionisti Telecom, dunque, hanno buoni motivi per essere arrabbiati. La loro società è in un settore, quello della telefonia fissa, i cui utili si prevedono in calo, non tanto perché non vi siano possibilità di sviluppo, ma perché non ci saranno più rendite da monopolio e tutte le strade che si possono battere sono aperte ad una forte concorrenza. La telefonia mobile resta invece, almeno per ora, la gallina dalle uova d'oro. Gli azionisti Telecom avrebbero ancora Tim, ma attraverso la nuova controllante Tecnost e non più direttamente: e Tecnost ha 28.800 miliardi di debiti (conseguenti alla scalata) da ammortizzare prima di pensare a remunerare gli azionisti. Inoltre Telecom viene privata degli utili Tim e impegnata a pagare in dividendi il 90% di quelli che farà lei, sempre al servizio dei debiti Tecnost. Né per la società del fisso, né per quella del mobile, questa appare come la migliore situazione per sostenere gli sforzi necessari a svilupparsi.

Sembrano invece francamente folcloristiche accuse come quella di “voler rifare la Stet”, solo perché ci sarebbe una finanziaria con due controllate industriali in parallelo. Non solo perché quel mondo, con i suoi capi e sottocapi ognuno legato a un referente politico diverso, è lontano anni luce, ma anche perché sul modello organizzativo in senso stretto non esiste una teoria prevalente: da questo specifico punto di vista Colaninno potrebbe benissimo aver ragione.

L'errore. L'errore di Colaninno, dunque, non è tanto nel “cosa” ha intenzione di fare, ma nel “come”. La sua mossa può essere letta in un solo modo: far pagare i costi della scalata alle società conquistate, indebolendole quindi fortemente, e agli azionisti di minoranza. Ci sarebbero altri sistemi? In realtà, il “peccato originale” (la scalata, che comportava un forte indebitamento) ormai è stato commesso, i debiti sono lì e in qualche modo bisogna ripagarli. E’ già stata annunciata la vendita delle società industriali, Italtel e Sirti, e della Meie assicurazioni: ma si conta di ricavarci un migliaio di miliardi, poca cosa.

Ben di più, quasi 10.000 miliardi, si ricaverebbe dalla vendita di azioni Tim ordinarie e risparmio, ipotesi riferita dal ministro del Tesoro Giuliano Amato nel suo discorso di venerdì in Senato, che Tecnost può fare senza scendere sotto il 50%. Già: e perché non dovrebbe? Che male c'è a guidare società grandi come Telecom e Tim, che capitalizzano rispettivamente 100.000 e oltre 80.000 miliardi, possedendo quote azionarie inferiori? Nemmeno gli Agnelli hanno il 50% della Fiat. Il problema non è certo di evitare scalate, visto che semmai potrebbe essere assai più facilmente scalata la società quotata che sta sopra la Tecnost, cioè la Olivetti. Ma Colaninno, e Mediobanca che è dietro di lui, hanno bisogno di un controllo “largo” per ridurre le possibilità che si formino “minoranze di blocco” in grado di bocciare i loro piani. Il primo di questi rischi, tra l'altro, dovrà essere affrontato proprio nell'assemblea straordinaria Telecom che dovrebbe approvare la scissione dando il via a tutta la manovra, dove basterà un 25% di voti contrari per mandare tutto a monte: se si arriverà a farla con il programma annunciato, visto il putiferio che si è scatenato.

Già, Mediobanca. L'operazione è in perfetto e tradizionale “stile Filodrammatici”, hanno commentato tutti. E a voler essere proprio maligni, si potrebbe persino azzardare un'altra ipotesi. Da varie settimane circolano voci su un concreto interesse di Mediobanca ad assicurarsi Telecom, per farne, insieme all'elettrica Edison, una potente società multiutility. Della forma che dovrebbe prendere l'operazione ancora nulla si sa. Si parla di “Olimont” (fusione Montedison-Olivetti), magari preceduta da una fusione di Montedison con la controllante Compart. Ora, Mediobanca ha molte più azioni Compart-Montedison che Olivetti e, in questa ipotesi, non potrebbe certo dispiacersi di una riduzione del valore di Borsa del gruppo guidato da Colaninno. Ma lasciamo stare per il momento le voci, visto che a pensar male si fa peccato, e torniamo al problema Telecom.

Colaninno è riuscito nella scalata perché ha sventolato dei soldi sotto il naso degli investitori, ma anche perché ha avuto l'appoggio del governo. Oggi il governo, per bocca del ministro del Tesoro Giuliano Amato, ha preso le distanze dal suo progetto e con la “golden share” può bloccarlo. Ma forse farebbe più male che bene, perché si immischierebbe, con un giudizio di merito, nella strategia decisa da chi guida l'azienda: un pessimo segnale per chi pensi di partecipare alle prossime privatizzazioni. E gli azionisti di minoranza, non vanno forse difesi? Sì. Ma triste il paese - e pessimo il suo mercato - che per farlo ha bisogno di poteri speciali del governo nelle aziende. Forse bisognerebbe solo prendere atto che un uovo rotto non si ripara, e trarne qualche insegnamento per il futuro molto prossimo.


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