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 Lavoro Riduci

Maledetto lavoro
Anche stavolta i dati sull'occupazione hanno riacceso il dibattito tra "governativi" che cantano le lodi dei provvedimenti sul lavoro e chi invece invita alla cautela. Ma i nuovi posti sono merito del Jobs act? In realtà c'entra poco o nulla

(pubblicato su Repubblica.it il 6 giu 2015)

Anche stavolta i dati sull'occupazione hanno riacceso il dibattito tra "governativi" che cantano le lodi dei provvedimenti sul lavoro e chi invece invita alla cautela, perché al momento le tendenze sono di incerta interpretazione. Tra le varie analisi, ne sono uscite due nello stesso giorno quasi perfettamente coincidenti, nonostante che siano apparse su mezzi di informazione politicamente distanti: la prima, di Paolo Pini e Roberto Romano, sul Manifesto; l'altra, di Pietro Garibaldi, su lavoce.info.

Matteo Renzi e Giuliano PolettiEntrambe sottolineano la discrepanza fra la crescita dell'occupazione nell'ultimo anno (+1,2% aprile su aprile) e l'andamento del Pil nello stesso periodo (-0,29% marzo su marzo). Ed entrambe sottolineano che un aumento dell'occupazione superiore alla crescita economica comporta una diminuzione della produttività, fattore rispetto al quale l'Italia è in difficoltà da ben prima dello scoppio della crisi. Entrambe ricordano che un fenomeno simile accadde, scrive Garibaldi, "all' inizio degli anni Duemila, quando l’occupazione cresceva dell’1% all’anno con un Pil che sonnecchiava intorno allo 0,5".  Pini e Romano osservano che "se la crescita della produttività, di cui già l’Italia detiene da oltre due decenni la maglia nera tra i paesi industriali, non solo ristagna (crescita zero) ma addirittura decresce, non è facile farsi facili illusioni su «buona occupazione» e «buone retribuzioni» per il presente e l’immediato futuro. (...) Quei dati occupazionali segnalano purtroppo, se presi come autentici — forse proprio perché son “drogati” dagli incentivi fiscali e dal contratto a monetizzazione crescente e facilità a licenziare — l’altra faccia della medaglia di questa presunta crescita quantitativa, ovvero il suo povero contenuto qualitativo". Garibaldi segnala inoltre la forte crescita del lavoro a termine.

I problemi di cui parlano i tre autori sono certamente reali. Vorremmo aggiungere un'ipotesi per integrare le loro analisi. Ricapitoliamo lo scenario tra fine del 2014 e questi ultimi mesi. Il quantitative easing è stato annunciato da Draghi a metà gennaio, e già da qualche mese l'euro si era indebolito e il prezzo del petrolio era sceso nettamente. Più volte è stato ripetuto quanto queste condizioni creassero un quadro favorevole, ma il Rapporto annuale dell'Istat ce lo fa vedere anche con i numeri, grazie a una tabella pubblicata a pag. 12.


Come si vede dall'ultima colonna, nel 2014 la produttività è calata e il costo del lavoro per dipendente lievemente salito, generando un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto dell'1,7%. Però il complesso dei costi (deflatore dell'input) è sceso lo stesso, permettendo di mantenere invariato il costo complessivo della produzione (penultima riga), il che ha permesso alle imprese di mantenere praticamente invariato il margine (mark up).

Inoltre tutte le previsioni, del governo, delle istituzioni e dei centri indipendenti, davano l'Italia in crescita, modesta (quasi tutte parlavano dello 0,7% nel 2015) ma relativamente certa. Tutte queste condizioni hanno evidentemente generato aspettative, seppure caute, di un miglioramento delle condizioni dell'economia. Che non si sono riflesse nell'indice sulla fiducia delle imprese rilevato dall'Istat, rimasto pressoché piatto tranne un balzo a febbraio (da 91,6 a 94,9), ma sono state rilevate invece da un altro indice - considerato molto importante dagli addetti ai lavori - e cioè il Purchasing Managers Index (Pmi), che a maggio è balzato a 54,8 da 53,8 di aprile, attestandosi per il quarto mese di fila oltre la soglia di 50 che separa la crescita dalla contrazione. Un altro segnale è venuto dalle importazioni, aumentate in particolare per gli acquisti di beni intermedi e di beni strumentali, cioè di cose che servono alla produzione. Le previsioni di crescita hanno avuto poi una prima conferma con la stima preliminare del Pil a fine febbraio e poi con il +0,3% del primo trimestre, un dato migliore delle attese.

Il dato sulle assunzioni, dunque, con ogni probabilità va esaminato guardando al futuro più che al passato.  Le imprese hanno cominciato a scommettere su una ripresina, e dopo tanto ridurre la manodopera (non dimentichiamo che sia a febbraio che a marzo l'occupazione risultava ancora in calo) si sono azzardate a ricominciare ad assumere. Ma c'è voluto il "regalo" della decontribuzione e tutte le garanzie che potranno liberarsi in fretta di queste reclute, o perché sono a termine (l'incidenza di questi contratti, nota Garibaldi, sale dal 9,4 al 9,7% nel confronto fra i due primi trimestri), o grazie alle norme del Jobs act. Un aumento precario, dunque, come i contratti con cui si è concretizzato: l'evoluzione dipenderà dalla congiuntura.

Ma allora c'entra il Jobs act? Probabilmente senza quello (licenziabilità) e senza la ricca decontribuzione si sarebbero fatti meno contratti "a tempo indeterminato". Lo mettiamo tra virgolette, perché una volta questa espressione indicava un lavoro ragionevolmente sicuro  (a meno di serie difficoltà dell'azienda), oggi invece ha assunto un significato letterale: "indeterminato" perché non si sa quanto durerà. Ma se quelle persone servivano alle aziende sarebbero state assunte lo stesso, magari in qualche altra forma. E' dal '97 che le aziende dispongono di un ampio ventaglio di tipologie contrattuali - oltre 40 - con la precarietà declinata in tutte le salse. Se non assumevano era perché non avevano neanche la cauta speranza attuale sulla possibilità di una ripresina.

Se dunque questa nuova occupazione è dovuta alle aspettative, seppure timide, di un miglioramento congiunturale, restano valide però le osservazioni degli articoli di cui abbiamo parlato: se la crescita non terrà il passo con l'aumento del numero di chi lavora ne risentirà la produttività, e la maggior parte di quei lavori saranno poco qualificati e mal pagati. Si continuerà insomma su quel sentiero che ha sostituito gli investimenti in tecnologia e innovazione con la compressione di salari e diritti, ottenendo dai vari governi un progressivo deterioramento delle tutele del lavoro. "Di fronte alla sfida dei nuovi  paesi emergenti e delle nuove tecnologie, non ci siamo difesi  con l'innovazione e gli investimenti, ma con la ricerca di  minori costi, in particolare del lavoro. Di qui un utilizzo sbagliato della maggiore flessibilità del mercato del lavoro", che ha determinato "una riduzione  sostanziale della disoccupazione ma anche un aumento insostenibile della precarietà, dell'insicurezza e dei rischi". Non sono parole del segretario della Fiom Maurizio Landini, ma del governatore di Bankitalia Ignazio Visco in un suo intervento del 2 giugno a Trento.

Altre strade, diverse da quelle del Jobs act (e della sequela dei provvedimenti precedenti), ci sarebbero. Una serie di proposte alternative sono esaminate per esempio in un documento, chiamato con un pizzico di provocazione Workers act, elaborato su iniziativa di Sbilanciamoci con il contributo di numerose associazioni, il coordinamento dell'economista Claudio Gnesutta e una prefazione di Rossana Rossanda. Ne hanno discusso il 4 scorso Landini, Claudio Treves (Nidil), Grazia Naletto (Sbilanciamoci), Giulio Marcon (deputato di Sel), Riccardo Laterza (Rete della Conoscenza) e altri. Il documento si può scaricare liberamente da questo link. Ora che persino il governatore Visco ha spiegato quanto sia stata sbagliata la linea seguita fin qui sul lavoro, sarebbe il caso che quelle proposte fossero valutate con attenzione.


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