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 Politica economica Riduci

Non basta il cambiamento,
dev’essere in meglio

Tempesta di critiche sulla manovra del governo per l’aumento del deficit, che invece sarebbe una buona mossa. I problemi sono sul tipo di interventi e soprattutto sulla previsione di crescita del Pil 2019: non solo la congiuntura internazionale è poco favorevole, anche i tempi giocano contro. E le vere riforme necessarie per ora non si vedono

(pubblicato su Repubblica.it il 13 ott 2018)

E’ davvero una mossa così incosciente prevedere un deficit al 2,4 %? E’ del tutto inverosimile affermare che il Pil dell’anno prossimo crescerà dell’1,5%? A giudicare dalle reazioni che hanno provocato – più a livello politico e istituzionale che dei mercati – si direbbe che questi obiettivi contenuti nella Nota di aggiornamento al Def, il Documento di economia e finanza, siano opera di una banda di pazzi.

Magari invece ha ragione l’economista Mario Nuti  a parlare di “isteria”. Nel suo blog fa il conto su quale livello del deficit non farebbe crescere il rapporto debito/Pil e, utilizzando le stime del Fondo monetario e ipotizzando prudentemente una crescita nel 2019 dell’1% e un’inflazione all’1,4, ricava che quel rapporto non aumenterebbe fino a un deficit del 3,04%. Ma Nuti, che è un economista serio, fa i conti sui dati reali, mentre la Commissione Ue usa quelli “strutturali”, cioè basati sul calcolo del Pil potenziale: un metodo che persino un gruppo di studio istituito dalla Commissione, nel lontano 2013, aveva giudicato non attendibile e che l’Italia contesta da tempo senza ottenere alcun ascolto.

Più problematico quell’1,5% di crescita. Un altro economista, Massimo D’Antoni, osserva che “le stime sull’impatto della manovra proposte da questo governo appaiono del tutto in linea con quelle considerate valide dal governo precedente (e generalmente accettate come ragionevoli dagli istituti di ricerca)”. E però, prosegue, problemi potrebbero venire dal quadro internazionale, che mostra un rallentamento dell’economia; senza contare che quanto stanziato per gli investimenti (che sono quelli che darebbero la spinta più forte) ammonta appena a uno 0,2% del Pil. Nella stessa Nota del governo, d’altronde, come scrive Ruggero Paladini, a p. 29 si parla degli effetti che potrebbero avere le variabili esogene: commercio mondiale -0,2; tasso di cambio nominale effettivo -0,2; prezzo del petrolio -0,2; ipotesi di migliori condizioni sul servizio del debito +0,2. Purtroppo, chiosa Paladini, la sola variabile che avrebbe un effetto positivo è anche la più improbabile, mentre le altre potrebbero verificarsi, si spera non tutte insieme.

Ma anche la matematica non è favorevole. La crescita del 2018 chiuderà molto probabilmente – scrive l’Ufficio parlamentare di bilancio nella sua relazione – all’1,1% (ma con la correzione per gli effetti di calendario si ottiene un ritmo dell1%), dopo gli ultimi due trimestri che dovrebbero far segnare uno 0,1% ciascuno. Questo comporta che il “trascinamento” (cioè la crescita già acquisita con cui inizierà il 2019) sarà solo dello 0,2%: per chiudere l’anno all’1,5 bisognerebbe che tutti e quattro i trimestri segnassero un +0,5%, cosa accaduta l’ultima volta negli anni ’90. L’Upb fa anche altri rilievi, per esempio sul tasso di crescita ipotizzato per gli investimenti. Si osserva che da anni non si riescono a realizzare gli investimenti programmati, e anzi dal 2010 al 2107 per questa variabile c’è stata una crescita negativa, e per il 2018 la stessa Nota corregge il +2,5 previsto dal Def in un -2,2. Così, sembra piuttosto azzardato che si punti a una crescita del 16% nel 2019 e del 10,7 e 7,1% nei due anni successivi.

E poi c’è la questione dei tempi. I 5S hanno detto che il salario minimo partirà ad aprile: ammesso anche che ce la facciano (cosa tutt’altro che scontata, visto che l’organizzazione sarà complessa) sarà già partito il primo trimestre. Anche gli altri provvedimenti è assai difficile che scattino il primo gennaio, senza dire dei (pochi) investimenti, che notoriamente vanno per le lunghe e non provocano nemmeno un effetto immediato. Insomma, con tutta la buona volontà bisogna dire che se il governo centrasse i suoi obiettivi si potrebbe ben parlare di un miracolo. Specialmente quel Pil all’1,5 appare davvero una chimera.

E allora? Allineati e coperti, e obbedire alle regole europee? Obbedire al Fondo monetario, un cui rappresentante ha dichiarato stizzito che “la manovra in discussione va in direzione opposta rispetto ai suggerimenti del Fmi”? Te li raccomando, i suggerimenti del Fondo: chiedere ai greci per referenze. L’ex capo economista Olivier Blanchard ha poi fatto autocritica, ammettendo che erano stati fatti grossi errori, ma evidentemente se ne sono già dimenticati. In realtà la manovra va nella direzione giusta: quando la congiuntura rallenta, lo Stato deve spendere di più, non di meno. Poi, certo, bisogna vedere come spende. E questa manovra non è una meraviglia.

Il fatto è che la crescita non si fa mettendo dei numeri in un documento. E’ importante che siano i numeri “giusti”, ma quella è solo la premessa. Fondamentali sono le riforme vere, quelle che i governi precedenti non hanno mai fatto perché troppo occupati a tagliare il welfare, ridurre i diritti dei lavoratori, inventare improbabili riforme costituzionali e occasionalmente distribuire mance alle imprese (parecchie) e ai potenziali elettori, che hanno ringraziato col gesto dell’ombrello. Le riforme vere sono far funzionare la pubblica amministrazione (“E’ stata distrutta”, si è lasciato scappare Tria), imparare a fare i progetti, senza i quali gli investimenti non partono e si perdono i fondi europei (cioè i fondi che noi abbiamo versato all’Europa), riformare la giustizia civile, smetterla di radere al suolo università e ricerca. Tutte cose complicate e soprattutto con pochissimo appeal da spendere in propaganda: vuoi mettere quanto rende di più far la guerra ai migranti?

Se il governo gialloverde avesse straparlato di meno, litigato di meno con tutti, messo un po’ più di investimenti nella manovra e soprattutto mostrato di volersi concentrare su quelle riforme, i mercati non si sarebbero certo fatti un problema di qualche decimale di differenza e avrebbero ignorato i fulmini dei dead men walking di Bruxelles, funzionari in scadenza che, al loro ritorno nei rispettivi paesi, troveranno in molti casi i loro vecchi partiti ridotti ai minimi storici. I decimali contano solo quando i governi sono poco credibili.


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