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 Politica Riduci

McKinsey ministero ombra
Il commissario Cttarelli non è il solo ad essere a disagio: nelle questioni legate alla pubblica amministrazione si sta diffondendo in modo pervasivo la presenza della società di consulenza, da cui proviene il più ascoltato consigliere di Renzi, Yoram Gutgeld. A ciò ora si aggiunge la squadra di economisti di supporto a Palazzo Chigi, in prevalenza di orientamento liberista

(pubblicato su Repubblica.it il 31 lug 2014)

Al ministero dell’Economia e Finanze (Mef), di fronte alla sala conferenze della Ragioneria generale, c’è una stanza sulla cui porta fa bella mostra una targa con scritto “Laboratorio McKinsey-Mef”. Ecco, forse quella targa spiega meglio di tante elucubrazioni politiche il disagio del commissario per la spending review Carlo Cottarelli, esplicitato nel “blog del Commissario” come una critica ad alcune decisioni parlamentari di spesa, ma molto più probabilmente provocato dalla consapevolezza che il suo ruolo è ormai quasi senza rilievo. Chi frequenta il ministero racconta che, subito dopo il suo insediamento, intorno a Cottarelli c’era un grande movimento di persone che facevano riferimento a lui per elaborare gli studi e le proposte, mentre ora attorno a lui c’è il deserto: continua a lavorare da solo (sta per presentare il suo rapporto sulle partecipate degli enti locali) con il supporto di una sola segretaria.

La costituzione di una squadra di economisti di supporto alla presidenza del Consiglio di certo non migliorerà la situazione: e neanche quella, al di là delle dichiarazioni ufficiali, dei rapporti tra il presidente Renzi e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che rischia di finire in una situazione analoga a quella di Cottarelli, cioè di contare sempre meno nelle decisioni politiche importanti. Non è un mistero che Renzi avesse pensato di insediare in quel posto un politico di sua fiducia e che per la scelta di Padoan sia stato decisivo il parere di Giorgio Napolitano, preoccupato del fatto che il ministro dell’economia dovesse essere una figura conosciuta a livello internazionale.

Sembra dunque che stiamo assistendo a una lotta di potere, dietro la quale c’è però un problema fondamentale, ossia il rapporto tra tecnici e politici. L’ideologia economico-politica dominante da quarant’anni sostiene che la politica, quando si occupa di economia, fa soltanto danni. La gestione dell’economia va lasciata ai tecnici, depositari della scienza che sa come far andare le cose nel modo migliore. Il compito della politica è soltanto quello di eliminare gli ostacoli al pieno dispiegarsi delle forze del mercato: dunque liberalizzazioni, privatizzazioni, eliminazione il più possibile delle regole, tra le quali vengono comprese quelle sui diritti dei lavoratori – ma anche sulla protezione dei consumatori – e magari quelle Costituzioni “troppo anti-fasciste”. Di questa ideologia fa parte integrante la teoria dello “sgocciolamento”: l’essenziale è creare un sistema che produca più ricchezza possibile, senza preoccuparsi della sua distribuzione, perché poi il benessere “gocciolerà” anche sulle classi più svantaggiate.

La fallacia di questa ideologia è stata comprovata da ciò che è accaduto da quando queste idee sono egemoni: una concentrazione della ricchezza sempre maggiore che ha finito per inceppare l’economia, sfociando nella grande crisi che ci colpisce ormai da sette anni. Perfino papa Francesco, nella sua recente esortazione apostolica Evangelii gaudium, ha definito errata la teoria dello “sgocciolamento”.

L’Europa, però, è ancora guidata in base a queste idee. Di qui il ruolo delle tecnocrazie non elettive che dettano la politica economica (Bce, Commissione Ue) e l’ondata di “governi tecnici” chiamati ad applicarla. Di qui le reprimende della Commissione per gli scostamenti dello zero-virgola che presenta il nostro bilancio rispetto agli obiettivi formulati attraverso formule esoteriche e tutt’altro che incontestabili.

Non sappiamo se Padoan condivida fino in fondo questa impostazione, ma di fatto il suo ruolo è quello di custode dell’ortodossia, e almeno nelle dichiarazioni ufficiali si comporta di conseguenza.

Renzi, in questa situazione, ci sta stretto, anzi strettissimo. Si rifiuta – giustamente – di lasciarsi guidare dal “pilota automatico” di cui un volta ha parlato il presidente della Bce Mario Draghi. Vuole prendere delle decisioni politiche e poterle attuare anche se sono fuori linea rispetto a quello che il pilota automatico prevederebbe. La vicenda degli 80 euro è stata un esempio lampante a questo riguardo: mai i tecnici l’avrebbero presa. Ma lui si è imposto: la decisione è questa, trovate il modo di attuarla.

Renzi, dunque, vuole prevalere sui tecnici, e per riuscirci si costruisce una squadra di tecnici “suoi”: che trovino il modo di realizzare quello che lui vuole fare invece di dirgli cosa fare. Fin qui, siamo in una fase che potremmo definire “la riconquista della democrazia”: le decisioni spettano a chi ha avuto l’investitura popolare, che si avvale dei tecnici, ma non ne è succube. Una cosa che l’Europa sembra aver dimenticato.

Yoram GutgeldPoi però bisogna vedere come questo avviene. Renzi personalmente capisce poco di economia. A quanto sembra di capire il più importante dei consiglieri a cui si affida è Yoram Gutgeld, che prima di diventare deputato Pd ha fatto una carriera in McKinsey di cui è diventato senior partner e direttore. E qui forse si comincia a capire che ci fa McKinsey al Mef, ma non solo. A quanto raccontano alcuni addetti ai lavori, la presenza della società di consulenza – che afferma di prestare la propria opera a titolo gratuito, fatto singolare per una società privata – sta diventando molto pervasiva. Si sta occupando, per esempio, anche della determinazione dei costi standard degli enti locali, un dato cruciale che determinerà il modo di distribuire le risorse. Del problema si era occupata per tre anni la Copaff (Commissione tecnica paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale) attraverso una società partecipata per l’87% dal Mef e per il 12,5% dalla Banca d’Italia, che aveva elaborato studi accurati che tenevano conto delle variabili di ogni territorio. A un certo punto è comparsa Mc Kinsey, che ha giudicato quella elaborazione “troppo complicata” e si è pronunciata per un sistema molto più sbrigativo: prendere i dati di cassa e fare le medie. “Un sistema completamente sballato”, si lamenta uno degli esperti che avevano lavorato al problema. “A parte che per fare una cosa del genere non serve una società di consulenza, basta un ragioniere. Ma questi oltretutto sono completamente impreparati sulle problematiche della pubblica amministrazione: ignorano addirittura cose che dovrebbe sapere anche solo chi legge i giornali”.

Insomma, Gutgeld si fida di Mc Kinsey, il che è naturale visto il suo passato. Ma davvero McKinsey è competente per questo tipo di problemi?

Nella “squadra” di Renzi, dunque, anche se non compare ufficialmente, c’è la McKinsey. Di altri componenti, che non sono mai stati al centro dell’attenzione dei media, è al momento prematuro definire l’orientamento, ma Marco Simoni è stato candidato con Scelta civica di Monti e Tommaso Nannicini è affiliato al centro di ricerca Igier-Bocconi. Altri due, Roberto Perotti (che, a quanto si scrive oggi, dovrebbe entrare al posto dell’ex rettore della Bocconi Guido Tabellini, di cui si era fatto il nome) e Veronica De Romanis, appartengono invece certamente all’area culturale comunemente definita “liberista”. E comunque sono lontanissimi da un orientamento non diciamo di sinistra, ma anche vagamente progressista. Insomma, l’impressione è che si tratti di una squadra prevalentemente orientata sulle teorie che Renzi sembra voler combattere. E allora, che ne verrà fuori? Un ritorno al primato della politica o semplicemente una politica determinata da certi tecnici invece che da altri, che realizzerà qualche idea a cui il presidente del Consiglio tiene, ma senza che davvero “cambi verso”? Al momento, i fatti dicono che quest’ultima è l’ipotesi più probabile. E se così sarà, avremo sommato due svantaggi: comntinuare in una politica sbagliata ma aver anche provocato una frattura istituzionale, creando una situazione in cui chi conta non è la persona che ricopre il ruolo formale nel governo o nell’amministrazione.


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