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 Finanza pubblica

Conti pubblici, non è mai Pasqua

La Finanziaria appena presentata è ben diversa da quelle berlusconiane, ma si presta a più di un'obiezione. E neanche questa volta si inizia quello che consentirebbe dei veri risparmi di spesa, le "pulizie di Pasqua" del bilancio

  

(3 ott 2006)

 

La Finanziaria è sostanzialmente piaciuta ai sindacati, decisamente dispiaciuta alla Confindustria, ha fatto minacciare all’opposizione di scendere in piazza, è stata promossa con lode dal mio ex direttore, Eugenio Scalfari, per cui nutro grande stima (e affetto). Perché allora non riesce non dico a entusiasmarmi, ma neanche a farmi sentire almeno soddisfatto?

 

Certo, c’è sempre una bella differenza rispetto a quelle catastrofiche dei governi Berlusconi. Ma ci mancherebbe altro. Chiarito questo, cerchiamo di ragionarci su.

Intanto c’era un vizio di fondo: la necessità di rispettare la promessa elettorale di ridurre il cuneo fiscale sulle retribuzioni. Una misura di scarsa o nulla utilità (dal punto di vista dello sviluppo) che però si è risucchiata ben 5,5 miliardi, quasi un terzo della spesa complessiva della manovra. D’altra parte, quella era stata l’unica promessa ad effetto della campagna elettorale, per il resto da debole a peggio. Non si poteva non rispettarla.

 

padoaschioppa280x307.gifMa si doveva rispettare, allora, anche la promessa sull’imposta di successione. Colpiremo solo i “grandi patrimoni”, “da molti milioni di euro”, avevano detto Prodi, Rutelli e tutti gli altri del centro sinistra. Non è quello che fa la Finanziaria. Di imposta di successione sui grandi patrimoni non c’è traccia, mentre c’è un prelievo non elevato ma generalizzato su successioni e donazioni. Può anche essere giusto, ma non è quello che era stato detto.

 

Poi c’è la manovra redistributiva attuata con la modifica dell’imposta personale. Anche qui c’è qualcosa da obiettare. Le nuove norme favoriscono chi ha redditi sotto i 40.000 euro l’anno, e penalizzano tutti gli altri. Da un punto di vista astratto non si può non approvare, tanto più che gli aggravi sono sicuramente sopportabili. Di fatto, però, si inasprice una progressività che è tutta in un’area dove non ci sono certo guadagni da nababbi. Quando si arriva ai ricchi veri (anzi, ancora prima) la progressività scompare. Dire poi che si è chiesto solo all’1,5 % di benestanti per favorire un 90% con redditi bassi è come mettere una pezza peggiore del buco. Lo sappiamo tutti che quelli sono i dati ufficiali del fisco, ma la nostra esperienza di tutti i giorni ci grida che non è vero, che non è possibile che i numeri veri siano quelli. I benestanti sopra i 75.000 euro non sono l’1,5%, sono molti di più, il 10, il 15, il 20% forse. Una cosa è dire che non è facile trovarli, un’altra fingere di credere alle cifre ufficiali. E speriamo che, dopo l’”inflazione percepita”, non ci vogliano convincere adesso che si tratta solo di “ricchezza percepita”.

 

E veniamo ai tagli di spesa. I minori trasferimenti agli enti locali si tradurranno certamente in un ulteriore aggravio di imposte, visto che è stata data loro la facoltà di farlo. Quanto a quelli sulla sanità, non hanno mai funzionato: in passato hanno creato debito sommerso (che dopo alcuni anni, inevitabilmente, riemergeva), stavolta, probabilmente, creeranno ticket. Anche qui, taglio o maggior prelievo?

 

Per fare i tagli veri, i risparmi da razionalizzazione dell’amministrazione, ci vuole tempo, come osservava Fabrizio Galimberti sul Sole 24 Ore di ieri. L’annunciata unificazione degli enti previdenziali è uno di questi. Ma perché non prefigurarne altri, almeno annunciandoli? Così, d’acchito, me ne vengono in mente due: il Poligrafico dello Stato, che è una macchina mangiasoldi che non serve a niente e andrebbe semplicemente chiuso; e l’anagrafe degli autoveicoli, che conta attualmente ben tre banche dati (con relative dotazioni di personale e attrezzature): all’Aci, al ministero dei Trasporti e a quello degli Interni. E il bello è che i dati non coincidono, così alla fine non si sa nemmeno con precisione quante auto circolino in Italia.

 

Galimberti ripropone l’idea dello zero-base budget. “I tagli si possono fare solo se si abbandona la cosiddetta “logica incrementale”. Cioè, quella logica per cui la spesa si controlla al margine: la spesa dell’anno scorso è sacra e acquisita, e si tratta solo di decidere se dare un po’ di più, o magari un po’ di meno, ma senza mettere in questione il grosso di quello che già c’è”. Con lo zero-base budget, invece, come dice la definizione si riparte da zero.

 

Ricordo che ne parlavo con l’allora Ragioniere generale dello Stato, Andrea Monorchio, negli anni dell’affannosa rincorsa per entrare nell’euro. Monorchio, che conosceva il bilancio a memoria, mi guardava con un pizzico di compatimento e affermava che ormai era stato “raschiato tutto”. Non sono mai riuscito a convincerlo del fatto che era la logica che doveva cambiare, la logica di funzionamento dell’amministrazione secondo parametri di migliore efficienza. Solo un esempio. Dopo le leggi Bassanini sulla semplificazione amministrativa non sono più state fatte tonnellate di certificati di ogni genere. A parte il sollievo per i cittadini, quanto si è risparmiato in questo modo? E non sembra che il tasso di legalità del paese ne abbia sofferto.

 

Insomma, bisognerebbe fare con il bilancio quello che una volta si faceva nelle case a Pasqua, le grandi pulizie. In Italia sono almeno vent’anni che se ne parla, ma questa Pasqua per i conti pubblici non arriva mai.

 

Infine, la questione del Tfr. Destinare all’Inps il 50% di quello che non adrà nei Fondi pensione per finanziarci le opere pubbliche non sembra una buona idea, almeno nel modo prefigurato. La cosa merita una riflessione a parte, ma qui mi preme affermare un principio generale: i soldi per le pensioni devono servire per precostituire le pensioni, con il massimo rendimento possibile. Non si dovrebbe usarli (anche se in questo caso pare che si continuerà a riconoscere il rendimento attuale del Tfr) per finanziare opere che sono importantissime, ma non rendono in termini finanziari, altrimenti le finanzierebbe il mercato, ci sarebbe la fila per chi mette i soldi. E non si dovrebbe usarli nemmeno per creare quegli investitori istituzionali che dovrebbero fluidificare il mercato finanziario e controllare le imprese, come invece sostiene la Banca d’Italia: almeno, non se questo significa maggiori rischi per il pensionando o se comporta (come accade oggi) commissioni e spese a suo carico che decurteranno pesantemente il capitale accumulato.

 

Per concludere: con un po’ di buona volontà questa può essere considerata una Finanziaria d’emergenza, per la situazione dei conti pubblici e per il tempo limitato che il governo ha avuto a disposizione. Per l’anno prossimo ci aspettiamo qualcosa di diverso. E di meglio.


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