I Fondi pensione sono nati ufficialmente più di dieci anni fa, eppure ancora oggi la sinistra non riesce a fare un discorso chiaro in materia. Anzi, l'argomento fa parte di quelli in cui non si capisce quanto incida una non perfetta comprensione e quanto una poderosa coda di paglia. Ora, però, è tempo di riprendere il discorso, perché tra poco i lavoratori dovranno scegliere se destinare ai Fondi anche gli accantonamenti per il Tfr. Una volta emanato il definitivo decreto di attuazione delle norme contenute nella riforma del lavoro del governo Berlusconi (probabilmente a settembre 2005), ci saranno sei mesi di tempo per comunicare al proprio datore di lavoro che non si intende destinare i propri accontonamenti per il Tfr ad un Fondo pensione; in caso contrario scatterà il "silenzio-assenso" e il Tfr prenderà la via della previdenza complementare.
I Fondi pensione nascono in Italia, non certo per caso, poco dopo la prima delle più recenti riforme della previdenza pubblica, quella varata la governo di Giuliano Amato nel '92. Da tempo, però, una corrente di economisti e anche - con decisione - la Banca d'Italia ne sostenevano la necessità: la previdenza, affermavano, deve basarsi su "tre pilastri", il primo pubblico a ripartizione, il secondo privato e collettivo a capitalizzazione e il terzo privato individuale (sempre a capitalizzazione, attraverso i prodotti offerti allo scopo dal mercato, come le polizze vita).
Questo perché la spesa pubblica per la previdenza non solo veniva ritenuta eccessiva, ma veniva giudicata in prospettiva insostenibile, sulla base di proiezioni a lungo termine che tenevano conto soprattutto dell'andamento demografico e della proporzione fra lavorativi attivi e pensionati. Bisognava dunque ridurre il costo futuro della previdenza, riducendo i diritti fino ad allora concessi ai lavoratori; il discrimine fra "diritti acquisiti" (e quindi non riducibili, pena una probabile cassazione per incostituzionalità) e semplici "aspettative" (che quindi potevano essere modificate dalla legge) fu stabilito un po' empiricamente ai 15 anni di anzianità contributiva già maturati alla data della riforma (il '92, appunto; un periodo che sarebbe stato confermato dalla successiva riforma Dini che avrebbe richiesto infatti 18 anni di anzianità nel '95).
Siccome i nuovi meccanismi di calcolo avrebbero ridotto il "tasso di sostituzione" della pensione (ossia l'importo della pensione rispetto all'ultimo stipendio percepito) dal 70-80% precedente al 60% e anche meno, fino al 30% circa calcolato per il sempre maggior numero di lavoratori con carriere discontinue, queste nuove pensioni avrebbero dovuto essere integrate dalla previdenza complementare, per non subire, quando si fosse smesso di lavorare, un pesante deterioramento del proprio livello di vita.
Fin qui, almeno a livello di ragionamento logico, tutto bene:
1) le "vecchie" pensioni costavano troppo;
2) dunque sono stati ridotti i diritti pensionistici futuri della parte meno anziana dei lavoratori;
3) questa riduzione delle pensioni future rendeva necessario costituire una rendita complementare a cui i lavoratori avrebbero dovuto provvedere.
Provvedere in che modo? La risposta è stata "attraverso i Fondi pensione", una forma di previdenza privata e collettiva. Ma questa era una delle risposte possibili.
Vediamola dal punto di vista del lavoratore. Costui, prima delle riforme, pagava 33 di contributi per avere in futuro 80 di pensione; dopo le riforme, continua a pagare 33 di contributi all'Inps, ma avrà 65; per tornare ad 80 dovrà fare altri versamenti ad un Fondo pensione, diciamo almeno 7 (si tratta naturalmente di cifre a titolo di esempio, quindi grossolane; ma sostanzialmente vicine alla realtà). Dal punto di vista del lavoratore, dunque, la spesa per ottenere la stessa pensione di prima è aumentata di 7 punti, quelli che versa al Fondo pensione.
E qui veniamo al secondo aspetto: perché li deve versare ad un Fondo pensione? Visto che comunque deve pagare di più, quel di più non avrebbe potuto essere aggiunto al 33 di prima e versato all'Inps, che in questo modo avrebbe potuto continuare a pagare in futuro pensioni di 80, invece che di 65, senza andare in deficit? Certo che avrebbe potuto!
Invece si è scelto di fare diversamente; ma è stata, appunto, una scelta. Motivata da che cosa?
Il primo motivo per importanza è stato sicuramente quello politico. In Italia le aliquote previdenziali - che gravano sul costo del lavoro - sono già tra le più alte del mondo; aumentarle ancora avrebbe provocato una rivolta delle imprese e non sarebbe stato gradito nemmeno dai sindacati. Ma non sono state, di fatto, aumentate? Sì, lo abbiamo appena detto: ma così "non si vede". E perché non si vede? Perché i contributi ai Fondi pensione vengono decisi in sede contrattuale fra aziende e sindacati, e sulla busta paga sono in una voce diversa da quella dei contributi previdenziali. Non vengono computati nella spesa pubblica per la previdenza e nemmeno fanno aumentare il dato della pressione fiscale. Sono considerati, appunto, una spesa privata.
Naturalmente, anche i contributi ai Fondi pensione entrano nel costo del lavoro: ciò significa che se l'azienda, per il rinnovo contrattuale, ha deciso di stanziare un tot, diciamo per esempio 10, non è che conceda un aumento salariale di 10 e poi aggiunga il contributo al Fondo pensione. Il contributo deve rientrare in quei 10, dopo di che per l'azienda è indifferente come vengano distribuiti, quanto in busta paga e quanto ai Fondi. Ma questo significa anche che l'aumento di contributi, direttamente o indirettamente, se lo paga tutto il lavoratore. E questo è il secondo motivo.
Un terzo motivo ha a che fare con la macroeconomia. La previdenza pubblica, come si sa, è a ripartizione, ossia non accumula fondi per pagare le pensioni: i contributi degli attivi servono per pagare i vitalizi ai pensionati. I Fondi pensione, invece, sono a capitalizzazione: durante tutta la mia vita lavorativa io verso del soldi che vengono investiti e che formano pian piano il capitale che servirà poi per pagare il vitalizio. Questo significa che somme imponenti vengono immesse nel sistema finanziario, contribuendo ad irrobustirlo e a finanziare l'economia attraverso l'acquisto delle azioni ed obbligazioni in cui i miei contributi "complementari" vengono investiti. Negli Stati Uniti e in Inghilterra i Fondi pensione sono i più importanti investitori istituzionali del mercato, e questo contribuisce in modo rilevante a rendere quei sistemi finanziari il più importante (gli Usa) e uno dei maggiori (l'Inghilterra) del mondo. Un sistema finanziario sviluppato è una variabile fondamentale per l'economia di un paese e questa è la ragione per cui gran parte degli economisti erano e sono favorevoli ai Fondi pensione.
Naturalmente hanno ragione (anche se in Italia si avranno effetti sensibili solo nel lunghissimo termine: vedi in proposito l'articolo La leggenda dei Fondi pensione). Ma quella macroeconomica può essere una ragione buona, ma non sufficiente. Perché il problema fondamentale è:
- per il lavoratore, i Fondi pensione sono meglio o peggio della pensione pubblica?
- Sono più o meno sicuri?
- Sono più o meno redditizi?
Qui le cose si complicano, perché i fattori da considerare sono molti e alcuni di essi possono variare in modi che non è possibile prevedere. Però su alcune cose "non ci piove", e su quelle si possono basare alcuni ragionamenti.
Cominciamo dall'ultima domanda: i Fondi rendono più o meno delle pensione pubblica?
I contributi della previdenza pubblica sappiamo di certo quanto rendono, perché è stabilito per legge. I versamenti vengono rivalutati ogni anno di una percentuale pari alla crescita del Pil, ossia l'inflazione più il tasso di aumento del reddito nazionale di quell'anno. Sul lunghissimo termine, com'è quello delle pensioni che maturano in 30 - 40 anni, è un rendimento per ottenere il quale qualsiasi gestore metterebbe la firma ad occhi chiusi. Significa che è praticamente assicurato, per tutto il periodo, un rendimento reale, tranne negli anni in cui la crescita del Pil dovesse essere negativa; ma: 1) questo, per fortuna, avviene di rado; 2) quando la crescita del Pil è negativa, anche la Borsa e le altre attività finanziarie di solito non se la passano affatto bene, anzi, in linea di massima vanno proprio male.
E i Fondi pensione quanto rendono? Questo è assolutamente impossibile dirlo. In questo caso, ogni singola persona ha il "suo" specifico rendimento, anche rispetto al compagno di lavoro che versa nello stesso Fondo. Intanto bisogna vedere che cosa si decide di fare. I Fondi di norma lasciano la possibilità di diverse opzioni su come debbano essere gestiti i propri soldi. Le opzioni di base sono quella "sicura" (l'intero capitale viene investito in obbligazioni), quella "dinamica" (con una parte si comprano azioni: per esempio 60/40) e quella "aggressiva" (la parte in azioni è più alta: per esempio 40/60). Poi c'è una componente legata al caso: come va la Borsa mentre io verso? E nell'ultimo periodo della mia carriera, ci sarà un grande boom finanziario cha farà crescere rapidamente il capitale - ormai relativamente cospicuo - accumulato in tanti anni, oppure mi capiterà di smettere di lavorare in una fase di crisi nera dei mercati, che magari assottiglierà crudelmente i miei guadagni? Nel periodo in cui verso prevarranno le fasi in cui i tassi reali delle obbligazioni sono alti, oppure quelle in cui diventano addirittura negativi? E ancora: saranno bravi i gestori dei miei soldi? Nei mercati c'è per forza chi guadagna e chi perde, da quale parte mi capiterà di stare?
La "vulgata" economica, però, afferma che nel lungo periodo l'investimento in azioni conviene. Sono state elaborate statistiche che hanno confrontato il rendimento degli indici di Borsa americani con quello delle obbligazioni e con l'inflazione, concludendone che l'investimento azionario è quello che ha reso di più. Ma quando si maneggiano le statistiche bisogna sempre fare molta attenzione. La conclusione è senz'altro vera, ma non è sempre vera, cioè non è vera indipendentemente dalle date di partenza e di arrivo tra cui si fa il conto.
Prendiamo la Borsa americana, la più grande e la più sviluppata del mondo. Su Plus, supplemento del Sole 24 Ore del 12.3.2005, Fabrizio Galimberti individua nell'ultimo secolo tre periodi di Borsa a "crescita zero", periodi cioè in cui le azioni hanno avuto in rendimento reale nullo. E quanto sono stati lunghi questi periodi? Una bazzecola: due di 23 anni e uno addirittura di 29. Per inciso, siamo entrati nel quarto di questi periodi, che dura attualmente da quasi cinque anni.
In questi periodi ci sta dentro tutta o quasi una carriera lavorativa: che risultato può avere il Fondo pensione di un poveretto che incappa in una fase di questo genere?
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Rendimento zero - Indice S&P500 deflazionato con i prezzi al consumo |
dal |
al |
durata |
agosto 1906 |
settembre 1928 |
22 anni e 8 mesi |
settembre 1929 |
novembre 1958 |
29 anni e 2 mesi |
dicembre 1968 |
gennaio 1992 |
23 anni e 1 mese |
agosto 2000 |
???? |
4 anni e 7 mesi (per ora) |
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Fonte: elaborazione Il Sole 24 Ore su dati di archivio e Us Department of Labor
Non è ancora tutto, però. Perché quello che appare sulla busta paga come versamento alla previdenza pubblica è un netto, cioè è la somma effettiva che viene considerata ai fini del computo della pensione. Il costo della gestione (cioè il funzionamento dell'Inps, peraltro un costo relativamente basso) è a carico dell'erario, cioè delle tasse che paga tutta la collettività. Quello che invece si versa in un Fondo pensione è un lordo, perché il Fondo detrae commissioni e tasse e poi investe quello che rimane. I costi dei vari Fondi sono ovviamente diversi tra loro, dato che sono soggetti privati che agiscono nel mercato. Una ricerca su quanto incidano questi costi sul risultato finale è stata promossa recentemente dal Cerp, il centro studi torinese diretto dall'economista Elsa Fornero. Ne sono emersi risultati da considerare attentamente.
Nella media delle "grandi categorie", i più convenienti dal punto di vista dei costi sono i Fondi contrattuali, quelli cioè di categoria contrattati fra sindacati e imprenditori; poi vengono i Fondi aperti, che sono quelli offerti dai gruppi finanziari a cui possono aderire coloro che non hanno un Fondo di categoria e i lavoratori autonomi; i più cari, infine, sono i cosiddetti "Pip", Piani individuali pensionistici, offerti dai gruppi assicurativi.
Il Cerp ha calcolato che nella peggiore delle ipotesi (ossia nel caso del prodotto più caro) tasse e commissioni si mangiano ben il 59 per cento del capitale che sarebbe maturato investendo la cifra netta (il calcolo è fatto su 35 anni di versamenti). Per i Pip la media è comunque altissima, oltre il 48%, e il meno caro di questi prodotti si ferma al 34, ossia si prende comunque un terzo del capitale potenziale. Per i Fondi aperti il costo medio è del 37,6% e del 26 per i prodotto migliore. I Fondi contrattuali sono i meno costosi, ma anche il migliore si porta via il 12,5%.
Detto tutto questo, si capisce che molto difficilmente i Fondi (e tanto meno i Piani Individuali) potranno fruttare al futuro pensionato di più di quanto gli rendano i contributi della previdenza pubblica. Può certamente succedere, ma è per lo meno dubbio che possa accadere nella maggioranza dei casi. E' invece molto probabile che un certo numero di persone, per sfortuna o perché i gestori non sono bravi, finiscano per avere un rendimento negativo, cioè un capitale finale più basso della somma dei versamenti. Naturalemnte, esistono sul mercato dei prodotti che garantiscono un determinato rendimento minimo, ma: 1) il rendimento garantito si riferisce alla somma investita, cioè a quello che rimane dopo aver detratto costi e tasse; 2) ovviamente questa garanzia si paga, e quindi i costi sono ancora più alti.
Abbiamo detto dei rischi degli strumenti pensionistici privati, ma in realtà anche con la pensione pubblica c'è qualche rischio potenziale. Alcuni parlano del rischio del cosiddetto default: lo Stato può fare bancarotta, o addirittura sparire (si pensi alla Jugoslavia) e le pensioni non verrebbero più pagate. Ma, a parte il fatto che gli Stati non spariscono tutti i giorni, bisogna ricordare che le pensioni sono pagate dai contributi dei lavoratori attivi. Bisognerebbe quindi che non solo lo Stato facesse bancarotta, ma decidesse anche di appropriarsi del gettito dei contributi per farci altro invece che pagare le pensioni. Tutto può accadere, ma si tratta di uno scenario da guerra civile o da rivoluzione, nel qual caso anche con i contratti privati (come quelli dei Fondi) non ci sarebbe da stare tranquilli. Inutile, dunque, mettere in conto questa ipotesi.
Un rischio più reale è che lo Stato decida ad un certo punto di cambiare le regole, rendendole meno favorevoli. Questo è accaduto più volte negli ultimi 15 anni (con le varie riforme, ma anche con provvedimenti ad hoc, come quello, ad esempio, che in passato ha eliminato l'indicizzazione delle pensioni ai salari). Questo rischio non è così raro come il primo, ma è meno grave negli esiti: di certo non lascia i pensionati a bocca asciutta, la pensione continua ad esserci, anche se il trattamento può diventare meno favorevole che in precedenza.
E' anche per questo che molti economisti sostengono la necessità di costruirsi una pensione "mista", affidando una parte dei risparmi al settore privato. In effetti è l'unica obiezione "forte" a vantaggio di questa formula, perché, come abbiamo visto, la previdenza pubblica è in netto vantaggio sia dal punto di vista della sicurezza che da quello dei rendimenti. Allora, è vero che la diversificazione è uno dei principi-base della finanza, ma diversificare verso un prodotto più rischioso e meno redditizio non sembra, ad occhio e croce, un ottimo affare. Se si riteneva che le pensioni del dopo-riforme sarebbero state insufficienti a garantire una vita dignitosa ai futuri pensionati, meglio sarebbe stato aumentare i contributi da versare all'Inps, invece di dirottarli verso il Fondi pensione, che, come dice il nome, dovrebbero servire solo a chi vuole garantirsi una rendita complementare, cioè un di più.
Questo discorso sarebbe solo accademico, visto che è del tutto improbabile che si cambi quella scelta, se ora non ci fosse un'altra decisione che incombe, quella sulla destinazione del proprio Tfr. Come si diceva, tra breve entrerà in vigore la norma che prevede il versamento ai Fondi degli accantonamenti per la liquidazione, a meno che il lavoratore non faccia esplicita richiesta di mantenere il Tfr com'è ora.
Quanto rende il Tfr? La rivalutazione, fatta ogni anno ex post, è il 75% dell'inflazione più 1,5 punti percentuali. Ciò significa che quando l'inflazione è bassa, come in questi anni, il Tfr ha un rendimento reale; con un'inflazione al 6% si rivaluta zero, ma mantiene il potere d'accquisto; se l'inflazione è più alta il rendimento diventa negativo. Questo è l'unico rischio connesso al Tfr: alcuni - persino qualche economista - dicono che si rischia di perderlo se l'azienda fallisce, ma si tratta di un puro e semplice errore. Il pagamento del Tfr è comunque assicurato da un apposito Fondo presso l'Inps.
Ma, dicono alcuni, il Tfr nei Fondi renderebbe di più. Rinviamo al discorso già fatto: in alcuni casi sì, ma di certo non in tutti i casi. Vale la pena di scambiare il rischio con un possibile - ma niente affatto certo - miglior rendimento? I buoni principi della finanza insegnano che la diversificazione verso attività potenzialmente più redditizie, ma più rischiose, si fa con la parte dei propri soldi su si è disposti a subire perdite. Ma per molti il Tfr rappresenta un sostegno indispensabile nel caso di perdita del lavoro, che peraltro di questi tempi è un'ipotesi purtroppo più probabile che in passato. Un sostegno di cui si dovrà fare a meno, nel malaugurato caso in cui ciò dovesse succedere, se si versa il Tfr al Fondo pensione: quei soldi saranno disponibili soltanto - appunto - quando si andrà in pensione, visto che lo scopo è di incrementare il vitalizio.
Speriamo di aver dato un quadro abbastanza completo dei pro e dei contro delle varie possibilità. Soluzioni perfette, purtroppo, non ne esistono. Ognuno valuti secondo le sue preferenze e le sue propensioni. Personalmente, mi terrò il Tfr.