Quanto vale un bravo manager
L’ipotesi di limitare i superstipendi dei manager pubblici divide anche a sinistra. Ma ritenere che l’entità dello stipendio sia il fattore sempre e comunque determinante per selezionare i migliori è un’idea platealmente sballata. Ci sono molti altri fattori che influiscono sulle scelte personali
(pubblicato su Repubblica.it il 23 mar 14)
Avremo tutte schiappe alla guida delle nostre aziende pubbliche o a controllo pubblico? Dopo le dichiarazioni di Mauro Moretti, l’amministratore delegato delle Ferrovie (“se mi riducono lo stipendio me ne vado”) il dubbio ha cominciato a serpeggiare anche a sinistra. L’intenzione espressa dal presidente del Consiglio di ridurre le retribuzioni dei top manager di Stato, a cui Moretti ha reagito, ha innescato un dibattito in cui le posizioni non vedono una demarcazione netta fra destra e sinistra, come forse ci si sarebbe potuti aspettare. Fabrizio Barca, per esempio, ha twittato: “(Faccio eccezione a #bastaconmoretti) Certo ! Toccare i vertici incapaci. NON gettare loro stipendi in bocca al popolo!!” E alla replica di un suo follower (“Non ho capito. Sono tanti, o no, 850mila euro pubblici a manager pubblico?”) ha a sua volta ribattuto: “Tanti rispetto a che? A ciò che paga mercato:no. A mio/suo canone:sì. Ma nel capitalismo conta il primo”.
Sulla stessa linea l’economista Massimo D’Antoni, già capo della segreteria tecnica di Stefano Fassina e quindi dell’ala sinistra del Pd: “Penso che Moretti abbia ragione: limitare il compenso di un manager che gestisce un'azienda importante vuol dire non avere idea di come funziona un'economia di mercato, insomma è una sciocchezza”. Poi precisa meglio il suo pensiero: “La mia non è un'affermazione di principio sull'inopportunità di interferire con il mercato. Io obietto all'idea che si debba istituzionalizzare in un vincolo di legge l'idea che il manager dello Stato è per forza un burocrate incapace il cui stipendio è una rendita che può essere compressa senza conseguenze. L'idea che puoi porre un limite alla remunerazione dei manager di Stato (solo quelli) è parente stretta dell'idea che il pubblico è comunque inefficienza e mala gestione. In questo senso c'è un egualitarismo di maniera che va a braccetto con il peggior liberismo”.
In realtà il “mercato” a cui si fa riferimento non dà indicazioni univoche né costanti nel tempo. Fino agli anni ’70, cioè prima che il vento di destra cominciasse a soffiare impetuoso nel mondo più industrializzato, la situazione era molto diversa. L’ex sindacalista Antonio Lettieri ricorda che all’epoca in Giappone il rapporto tra salari operai e retribuzioni dei top manager era di 1 a 7. Nello stesso periodo Pierre Carniti aveva incontrato il capo dell’allora potentissimo sindacato Usa dell’auto e il leader dell’Uaw aveva lungamente discusso con preoccupazione il fatto che il Ceo della General Motors guadagnava ben 12 volte il salario medio. Anche il mitico capo della Fiat Vittorio Valletta aveva portato il suo stipendio a 12 volte quello dei suoi operai, e a scandalizzarsene, più ancora dei sindacati, era un imprenditore non certo da meno come Adriano Olivetti. Nel 2012 Sergio Marchionne, con i suoi 48,5 milioni, ha guadagnato circa 2.000 volte il salario medio dei dipendenti italiani.
Anche oggi non sembra esserci una regola assoluta. Moretti ha affermato che il suo omologo tedesco guadagna il doppio di lui, ma il loro collega francese porta a casa un terzo di Moretti. Sarà una schiappa? Di certo il sistema ferroviario francese, se non il migliore, è tra i migliori del mondo.
Una cosa invece è certa: ritenere che l’entità dello stipendio sia il fattore sempre e comunque determinante per selezionare e non far fuggire i migliori è un’idea platealmente sballata. Le scelte di vita non possono essere ridotte alla ricerca del più alto guadagno possibile, sono un qualcosa di assai più complesso in cui entrano in gioco motivazioni diverse e che variano da persona a persona. Questo è un fatto, e ve ne sono numerosi esempi. Lo stesso Moretti, che è ingegnere, decise a un certo punto di dedicarsi alla carriera sindacale (nella Cgil). Non ne ebbe sicuramente un vantaggio economico. Certo, si può pensare che la mossa facesse parte di una strategia per la scalata al potere (che poi ha avuto successo). Ma consideriamo qualche altro caso.
Mario Draghi, per esempio. Dopo una decina d’anni come direttore generale del Tesoro era passato al settore privato, ossia alla Goldman Sachs, la regina delle banche d’affari e regina anche delle retribuzioni dei top manager. Ma Draghi non ha esitato a lasciarla per la guida della Banca d’Italia, dove certo non se la passava male (nel 2010 ha avuto circa un milione di euro), ma di sicuro non ci ha guadagnato. Un taglio ancora più consistente lo ha avuto passando alla presidenza della Bce: l’anno scorso ha guadagnato “appena” 374.000 euro. Sempre meglio del presidente della Fed Usa, che resta di un pelo sotto i 200.000 dollari: davvero pochino per un banchiere centrale. Basti pensare che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco prendeva circa 758.000 euro prima di decidere una autoriduzione clamorosa per l’entità, che lo ha portato a “soli” 495.000 euro. Eppure, non risulta che qualcuno abbia mai rifiutato la designazione al vertice della Fed per lo stipendio troppo basso.
Possono forse considerarsi casi eccezionali quelli di Enrico Mattei, forse il più grande manager che abbiamo mai avuto, che devolveva quasi tutto il suo stipendio in beneficenza; o, ai nostri tempi, di Josè Mujica, il presidente uruguayano che trattiene per sé meno del 10% del suo appannaggio. Ma basta pensare al giro delle conoscenze di ognuno per verificare che sono tanti coloro che fanno scelte di vita non per diventare il più ricchi possibile, ma per seguire un ideale, o un interesse, o una vocazione. Perché mai si dovrebbe supporre che solo tra i bravi manager debbano essere sempre assenti questi tipi di motivazioni?
Il discorso è tanto più valido per tutto ciò che fa capo al settore pubblico, che si tratti dell’alta burocrazia o della guida delle aziende: per molti c’è un “plus” che consiste nello svolgere il proprio lavoro mettendosi al servizio della collettività. E comunque non stiamo parlando di ridurre le retribuzioni a stipendiucci da impiegati, ma di importi che comunque collocano chi li riceve nell’1% più ricco dei loro concittadini.
C’è da sperare che l’idea di ridimensionare i compensi stellari non venga lasciata cadere. Può darsi che qualcuno se ne andrà. Non si farà certamente troppa fatica a trovare rimpiazzi almeno altrettanto validi.
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