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 Finanza

Quelli che danno le pagelle agli Stati

Le agenzie di rating esprimono valutazioni pubbliche sull'affidabilità degli Stati (ma anche di altri emittenti) nel ripagare i loro debiti. Anche se a volte hanno dato pessime prove, il loro potere deriva dal fatto che l'enorme numero degli emittenti rende impossibile (o comunque troppo costoso) agli investitori studiare ogni singolo caso

(pubblicato su Affari & Finanza il 15 dic 1997)

  
Dovendo investire in titoli di Stato a lungo termine, si rischia di più comprando quelli italiani o quelli della Corea del sud? Oggi una domanda del genere suona assurda. L'Italia non ha debiti con l'estero, la finanza pubblica è sotto controllo, l'inflazione bassa, quasi certamente entrerà a far parte fin dall'inizio dell'Unione monetaria europea; la Corea, invece, si avvita in una crisi gravissima, crollano la Borsa e la valuta, il sistema bancario rischia il collasso, la banca centrale è rimasta quasi senza riserve.

La domanda non era tanto assurda, però, nel giugno scorso. Le due maggiori agenzie di rating del mondo, le americane Moody's e Standard & Poor's, assegnavano allora ai due paesi valutazioni del rischio quasi uguali. Per Moody's l'Italia valeva Aa3 e la Corea A1; S&P assegnava all'Italia AA, ma con prospettive negative, alla Corea AA-, ma con prospettive “stabili”. Ad oggi, la valutazione dell'Italia non è cambiata; quella della Corea è stata invece pesantemente peggiorata da Moody's (Baa2), un po' meno da S&P (A-), ma entrambe hanno annunciato possibili nuovi ribassi. I codici usati dalle due agenzie sono un po' diversi, ma per entrambe la massima valutazione è la mitica AAA, che indica paesi considerati a rischio praticamente nullo.

Ma finché si resta nell'ambito delle A vuol dire che i titoli vengono considerati come “investment grade”, buoni per investire: una indicazione fondamentale per i migliaia di gestori di patrimoni, Fondi d'investimento, Fondi pensione di tutto il mondo. Moltissimi di costori devono rispettare statuti che impongono di investire solo in strumenti da un certo rating in su; e anche chi non è obbligato da norme, preferisce comunque farlo per avere le spalle coperte dal prestigio delle due agenzie. Ciò significa, tra l'altro, che chi gode di un rating elevato ha molta più facilità nel piazzare i suoi titoli, e può anche permettersi di offrire tassi al livello minimo della gamma di mercato. Al contrario, chi vede ridotto il suo rating dovrà offrire remunerazioni più appetitose per convincere gli investitori a comprare.

Ma torniamo alla Corea. Che si sta rivelando, per le due società, una vera debacle d'immagine. Tanto il Financial Times che l'Economist le hanno messe duramente sotto accusa: come è potuto succedere, hanno scritto, che non si fossero accorte di come la situazione si stava deteriorando? La critica si è estesa alle valutazioni su tutti i paesi asiatici e l'Economist ha ricordato un infortunio analogo sulla Yamaichi, declassata quado era ormai alla bancarotta. Non è la prima volta che le agenzie di rating vengono criticate, più o meno aspramente. Eppure, è assai probabile che anche questa volta, come è successo in passato, i loro affari non ne risentano per nulla.

“Hanno un potere enorme”, spiega un manager di una grande banca d'investimenti internazionale. “E’ la situazione oggettiva a darglielo. In tutto il mondo ci sono talmente tante emissioni, da parte di tanti soggetti diversi, che anche i grandi investitori non sono in grado di fare le valutazioni in proprio. Senza contare che spesso bisogna decidere in pochissimo tempo, altrimenti si perde un possibile affare: quindi non resta che affidarsi alle valutazioni di specialisti, anche se molti ritengono che non sempre sono completamente corrette”. Ad emettere titoli di debito per offrirli sui mercati internazionali, infatti, non sono solo Stati sovrani, ma anche banche, istituzioni, Fondazioni, società finanziarie o industriali. E chi non si sottopone all'esame del rating, ha poche possibilità di piazzare facilmente la sua “merce”.

Vediamo com'è piazzata l'Italia, per il debito a lungo termine, secondo Moody's (le differenze con S&P sono minime). Un rating più alto ce l'hanno ovviamente i Cinque Grandi (Usa, Germania, Regno Unito, Francia e Giappone: anche Tokyo, nonostante le sue difficoltà, mantiene la tripla A). Ma hanno il massimo anche Austria, Olanda, Svizzera, Norvegia, Lussemburgo e Liechtenstein. Sopra l'Aa3 dell'Italia sono anche, per esempio, Australia, Canada, Danimarca, Spagna, Finlandia, Irlanda, Bermuda e persino il Belgio, il cui rapporto debito/Pil è più o meno come il nostro. Noi siamo insieme a Svezia, Taiwan, Portogallo, Islanda. “L'Italia è stata pesantemente declassata dopo la crisi del '92”, ricorda un autorevole esperto che opera in una delle nostre più importanti istituzioni. “Ma negli ultimi tempi non si sono tenuti in conto gli enormi progressi della nostra situazione economica e finanziaria”. Anche a questo è dovuto il fatto che i rendimenti dei nostri titoli pubblici rimangono circa 50 centesimi più alti di quelli tedeschi, nonostante un'inflazione ormai analoga. Data la mole del debito pubblico, questo ci costa assai caro. Chissà, forse dopo questi infortuni in Asia le agenzie di rating potrebbero decidere di verificare tutte le loro valutazioni. E magari promuoverci.


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