Riforme del lavoro tutte sbagliate:
lo dice uno studio del Tesoro
Un paper pubblicato dal ministero dell’Economia esamina il mercato del lavoro dal ’97 (“Pacchetto Treu”) alla legge Fornero, per valutare gli esiti dei cambiamenti. Conclusione: “La dinamica occupazionale è peggiorata, la flessibilità è una trappola”
(pubblicato su Repubblica.it il 6 ott 2014)
Le riforme del lavoro fatte finora sono state un fallimento. A dirlo non è la Fiom o un qualche studioso “antagonista”, ma uno studio del ministero dell’Economia, che non ha avuto molta eco e che, soprattutto, non sembra essere preso in considerazione per l’annunciato job acts, che appare voler proseguire sulla stessa linea delle precedenti modifiche.
Lo studio si intitola “Valutazione di interventi di riforma del mercato del lavoro attraverso strumenti quantitativi” e gli autori sono Germana Di Domenico, del Mef-Dipartimento del Tesoro e Margherita Scarlato dell’Università Roma Tre. Sul paper è indicata la formula di rito “Il documento riflette esclusivamente le opinioni degli autori e non impegna in alcun modo l’Amministrazione”, la stessa che appare, per esempio, sugli studi della Banca d’Italia, ma si può considerare una foglia di fico istituzionale, usata per dire che cosa si pensa senza farlo apparire una presa di posizione ufficiale.
Vengono esaminate la varie modifiche alla legislazione sul lavoro a partire dal “pacchetto Treu” del 1997, passando per la mini-riforma del 2001 considerata un prologo del Decreto legislativo del 2003 impropriamente chiamato “legge Biagi” e giungendo fino alla riforma Fornero. La metodologia è complessa e i richiami teorici numerosi, ma le conclusioni sono molto chiare. Parlando della riforma Biagi (p. 27), si osserva che “l’effetto netto dell’introduzione della politica è stato di ridurre piuttosto che favorire l’occupazione”. E all’inizio della pagina successiva, tante volte qualcuno non avesse capito bene: “La riforma Biagi ha causato un peggioramento della dinamica occupazionale”.
Più in particolare (p. 30): 1) in seguito alla riforma si stima una probabilità minore di transitare da stati di non occupazione verso contratti a tempo indeterminato; 2) per i soli soggetti in uno stato iniziale di contratto a progetto (collaboratori), si registra una maggiore probabilità di transitare verso contratti a tempo indeterminato (circa 1 per cento), mentre si registra una diminuzione sostanziale della probabilità di transitare da contratti a tempo determinato verso contratti a tempo indeterminato (circa 10 per cento); 3) per i soggetti con contratti a progetto e contratti a tempo determinato, aumenta la probabilità di uscire dal mercato del lavoro.
Come disastro sembrerebbe già sufficiente, ma lo studio (di cui qui accenniamo solo alle conclusioni più importanti) deve ancora esaminare gli effetti della legge Fornero del 2012. Arriviamo così a p. 79, dove si legge:
1) per i lavoratori che si trovano fuori dal mercato del lavoro si è verificato un aumento della probabilità di permanere in questo stato;
2) un dato particolarmente allarmante che risulta dalla nostra elaborazione è l’incremento della probabilità di permanenza nello stato di disoccupazione (dal 39 per cento al 50 per cento);
3) aumenta la probabilità di permanenza nello stesso stato per i lavoratori con un contratto a tempo determinato.
“Presi congiuntamente, questi risultati indicano che, nel periodo considerato, la legge Fornero non ha contribuito a ridurre la segmentazione del mercato né è riuscita a mitigare l’impatto della crisi economica sul mercato del lavoro. La flessibilità in Italia continua quindi a configurarsi come una trappola che blocca in un precariato permanente i lavoratori che entrano nel mercato con contratti atipici”.
Naturalmente non dovevamo aspettare questo studio per capire che quasi vent’anni di cosiddette riforme non hanno affato migliorato, ma anzi il contrario, la situazione del mercato del lavoro. Gli studiosi che non si sono fatti affascinare dall’ideologia dominante lo hanno sempre detto, ripetendolo ad ogni ulteriore passaggio, come dicono adesso che molte delle misure che dovrebbero essere approvate con il jobs act non faranno che peggiorare la situazione. Qualcuno potrebbe replicare che magari sì, sono stati chiesti sacrifici al mondo del lavoro, ma lo si è fatto perché era necessario al rilancio delle imprese. Beh, alzi la mano chi ha visto la minima traccia di questo rilancio. Neanche prima della catastrofe provocata dalla crisi e dalla sua inqualificabile gestione la produttività era aumentata, né il nostro export aveva preso il volo. Non prendere atto di tutto questo non ha senso. E fare una nuova riforma sbagliata perché c’è bisogno di uno scalpo da presentare alla Commissione, alla Bce e alla signora Merkel potrà solo peggiorare ancora le cose.