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 Stato sociale Riduci

Articolo 18 e scalone pari non sono

La battaglia contro il brusco innalzamento dell’età pensionabile ha assunto i toni che ha avuto quella sulla modifica allo Statuto dei lavoratori. Ma mentre sulla libertà di licenziare era giusto rifiutare ogni trattativa, in questo caso sarebbe insensato far cadere il governo rigettando qualsiasi possibilità di compromesso

(12 lug. 2007 - pubblicato su Eguaglianza & libertà)

La battaglia sul cosiddetto “scalone” previdenziale ha travalicato il normale scontro politico per assumere significati simbolici, così come fu per l’artcolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Solo che c’è una differenza, e non da poco. Nella lotta sull’articolo 18 non c’era in gioco solo un successo politico, ma soprattutto i concreti rapporti di forza e di potere nel mondo del lavoro. Dare la possibilità al manager o all’imprenditore di dire “tu, levati di torno”, pagando solo un modesto indennizzo se il ricorso al giudice avesse stabilito che non c’era stata “giusta causa”,  avrebbe significato sbilanciare completamente dalla parte del datore di lavoro qualsiasi confronto fin dal suo nascere. Soltanto economisti e politici che non hanno mai messo piede in un’impresa privata potevano parlare astrattamente dei pregi della “flessibilità” senza capire (o forse si?) che cosa quel tipo di flessibilità avrebbe concretamente comportato. Ci si può stupire, semmai, che una parte del movimento sindacale sia stata disponibile a trattare il peggioramento di una conquista davvero fondamentale.

 

Tutt’altro discorso si deve fare per lo “scalone”. Che è un’ingiustizia, certamente. Ma non più grave (anzi) di parecchie altre, anche in campo previdenziale, che non sono nemmeno nell’agenda di discussione. Da parte di chi proclama che è indispensabile mantenerlo i toni sono quelli del disastro imminente: sembra che, abolendo lo scalone, verrebbero vanificati 15 anni di riforme pensionistiche che hanno fatto del sistema previdenziale italiano quello più in equilibrio in Europa, si favoleggia di una maggior spesa di milioni di euro, tutte le istituzioni internazionali, dalla Commissione europea al Fondo monetario internazionale, non perdono occasione per affermare che questa è la linea del Piave fra la serietà dei programmi di risanamento e la loro totale inattendibilità. Il fatto è che la previdenza pubblica è diventata ormai, più o meno in tutto il mondo, il fronte d’attacco per costringere sulla difensiva partiti progressisti e sindacati. Chissà se c’entra qualcosa il forte desiderio degli gnomi della finanza di gestire altre migliaia di miliardi di capitali a lunghissimo termine? E chissà perché tutti questi soloni del rigore dimenticano che lo scalone fa risparmiare nel breve termine, ma aumenta la spesa nel lungo?

 

Vediamo ora il problema dall’altra parte, quella di chi difende gli interessi dei lavoratori. Quante persone sono coinvolte dal problema dello scalone? Teoricamente, 130.000. Teoricamente: perché dovremmo supporre che tutti, ma proprio tutti, appena maturato il diritto alla pensione si affrettino a lasciare il lavoro. Invece sappiamo: 1) che questo non è vero, perché chi fa un lavoro faticoso, sgradevole o ripetitivo è ovvio che non veda l’ora di smettere di farlo, ma tutti gli altri, e a lume di naso non dovrebbero essere pochi, normalmente non hanno alcuna fretta di rinunciare a un salario o uno stipendio che bene o male è protetto dai contratti per scambiarlo con una pensione che negli anni perderà progressivamente il suo potere d’acquisto, senza contare il ruolo sociale conferito dall’esser parte del processo produttivo che per molti non ha meno importanza; 2) sappiamo anche che, siccome dello scalone si sa da tre anni, tutti quelli che volevano evitarlo e ne avevano la possibilità lo hanno già fatto, o lo faranno prima del 2008. Come altre volte in passato, ventilare riforme previdenziali peggiorative è una spinta potente a far andare in pensione subito anche chi, senza quel rischio, avrebbe continuato a lavorare.

 

Osserviamo incidentalmente che queste constatazioni – come ha ricordato di recente l’economista Roberto Pizzuti – minano l’attendibilità dei conteggi sui costi, fatti ipotizzando che tutti gli aventi diritto, se si abolisse lo scalone, andrebbero in pensione appena possibile.

 

Ciò detto, questo problema coinvolge dunque un pugno di persone. Ma conta il principio, si dirà. Ebbene, i principi sono sacri, ma la politica è l’arte del possibile, non dei principi assoluti. Soprattutto perché bisogna anche considerare il danno che lo scalone provoca. Mette la gente per la strada? No. Sconvolge loro la vita in maniera irreversibile? Nemmeno. Il danno consiste nel ritardare l’andata in pensione, al peggio, di tre anni, dai 57 ai 60, mentre la vita media arriva ormai agli 80. Francamente, se ne sono sopportate di peggio. E comunque, non più di scalone ormai si parla, ma di modifiche che ottengano un ragionevole equilibrio fra la riscrittura di una legge sbagliata e la spesa che ciò comporta.

 

E allora, chi a sinistra dell’abolizione dello scalone pura e semplice, senza compromessi possibili, ha fatto una bandiera, politico o sindacalista che sia, ha scelto una bandiera sbagliata. La ragione sta dalla parte di chi vuole l’abolizione, va bene: ma proprio questo dovrebbe dare maggior forza a una trattativa, che non sia “senza se e senza ma”, perché davvero per questa questione non è il caso, ma ceda su una parte, in cambio di altro, tenendo fermi solo alcuni punti: per ciò che riguarda i lavori usuranti (che però devono essere ben delimitati, non possono essere quasi tutti, in base al vecchio detto che “lavorare stanca”) e per chi, pur non rientrando in quella categoria, non dovesse essere in buone condizioni di salute (ma anche questo, da gestire senza furberie). Il compromesso che Prodi sta per proporre, insomma, può essere ovviamente trattato, ma non può essere rifiutato a priori.

 

Far cadere il governo per sventolare la bandiera anti-scalone, o anche solo dirottare a quel fine eccessive risorse che potrebbero essere usate per problemi più urgenti e più importanti, apparirebbe particolarmente adatto per ricordare quello che diceva Lenin a proposito delle malattie infantili.


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