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 Economia Riduci

Se otto ore 
vi sembran poche...
Se si lavorasse una settimana in più a parità di salario guadagneremmo un punto di Pil, sostiene il sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo. Reazioni: bocciatura all’unanimità, persino da Confindustria. Perché, a parte il fatto che il nostro orario è già tra i più lunghi, per essere più competitivi serve altro
 
(pubblicato su L’Espresso il 6 luglio 2012)
 
“Lavorare una settimana in più? Non mi sembra una proposta molto coerente con questa fase in cui c’è un eccesso di offerta di lavoro. Certo, se è a parità di retribuzione un senso ce l’ha, quello della riduzione dei costi. Ma è come dire che bisogna accettare una riduzione delle retribuzioni”, dice l’economista e manager Innocenzo Cipolletta. Sulla stessa linea Enrico Giovannini, presidente dell’Istat: “Tanto valeva proporre direttamente un taglio dei salari”.
 
Dire che la proposta del sottosegretario all’Economia Gianfranco Polillo (“Rinunciamo a una settimana di ferie a parità di salario, il Pil crescerebbe un punto in più”) ha suscitato un dibattito sarebbe un’esagerazione. C’è dibattito quando si formano almeno due schieramenti, ma qui sembra che lo schieramento sia uno solo, quello che la proposta non l’ha apprezzata. Persino la Confindustria la definisce “riduttiva”. Anche perché, dati alla mano, già oggi gli italiani sono tra quelli che lavorano più ore annue. Secondo un recente studio dell’Ocse 1.778 ore annue pro-capite nel 2010, contro le 1.408 della Germania e le 1.337 dell’Olanda, che sono in fondo a questa classifica; che è guidata, pensa un po’, dalla Grecia, con 2.017 ore.
 
Neanche in Europa Polillo riscuote consensi. “La produttività non si migliora lavorando di più, ma potenziando la formazione, investendo in tecnologia, in innovazione, migliorando i processi produttivi e formativi”, commenta Laszlo Andor, Commissario Ue al lavoro. Aggiunge Javier Cercas, eurodeputato socialista spagnolo relatore della direttiva sull'orario di lavoro: “In Spagna c’è un governo che dice ‘quando un tonto prende una strada, la strada finisce e il tonto continua a camminare’. Se l'Europa vuole vincere la sfida della competitività deve puntare sulla qualità e l'innovazione, non sulla quantità dove non possiamo competere con la Cina. Non abbiamo bisogno di più giorni di lavoro ma di avere più gente con una buona formazione".
 
Già, perché una cosa è il tempo di lavoro, un’altra la produttività, e lì non sembreremmo messi benissimo. Sempre secondo l’ Ocse siamo 24esimi su 34 paesi esaminati, a fronte di un 5° posto dell’Olanda, 6° della Francia e 7° della Germania. Ma quello della produttività è un problema complesso. Intanto bisogna vedere come si misura. L’Ocse, in questo studio, lo fa rapportando le ore lavorate al Pil, ma non è l’unico sistema.
 
Cipolletta è senz’altro tra i più qualificati per parlare di questo argomento. Tra le sue esperienze passate la direzione dell’Isco; poi è stato direttore generale di Confindustria, quindi presidente delle Ferrovie di Stato e oggi di Ubs Italia Sim. Inoltre ha appena prodotto uno studio in materia, insieme a Sergio De Nardis di Nomisma.
 

“Bisogna distinguere – spiega Cipolletta – tra incrementi della produttività e il suo livello assoluto. E’ vero che negli ultimi 10-15 anni i nostri incrementi sono stati molto modesti, ma eravamo su un livello assai elevato. Ancora oggi, se misuriamo la produttività in Pil per occupato espresso in parità di potere d’acquisto (Ppa), siamo appena sotto la media euro e ancora sopra la Germania. Certo, una misura di questo genere non ha un valore assoluto, perché non considera la composizione per settore: se si fa il conto con il Pil in euro correnti invece che in Ppa siamo sotto la Germania; ma ha comunque una sua significatività”.

 

Cipolletta e De Nardis spiegano anche che cosa è accaduto e perché. Fino agli anni ’90 la nostra economia era ad alta intensità di capitale, il che implicava un basso tasso di partecipazione al lavoro, molto sotto la media Ue. Con le riforme di quel decennio – l’accordo governo-Confindustria-sindacati del ’93, l’abolizione della scala mobile e poi il “Pacchetto Treu” e la cosiddetta “legge Biagi” – moderazione salariale e maggiore flessibilità del lavoro portarono a un deciso aumento del tasso di attività (ossia del numero complessivo di persone che lavorano). Ma dato che nel frattempo la crescita del Pil è stata bassissima (solo uno 0,2% in media annua) la produttività si è fermata. Un effetto inevitabile, osserva Cipolletta, se si voleva affrontare il problema di far lavorare più persone.
 
Un’analisi su cui concorda Giovannini, che introduce però un altro elemento. “La produttività per addetto cresce in parallelo con la dimensione aziendale, soprattutto nella manifattura., nonostante che nelle imprese di minori dimensioni si lavori molte più ore che nelle imprese maggiori. Ma su circa 4,4 milioni di imprese nell’industria e nei servizi sono solo 80.000 quelle con più di 20 addetti. Aggiungerei che tanti anni di moderazione salariale hanno sì fatto aumentare l’intensità di lavoro, ma hanno anche permesso agli imprenditori di fare guadagni senza fatica, riducendo gli stimoli a fare investimenti e sviluppare l’innovazione”. Una recente ricerca di un altro economista, Riccardo Gallo, fornisce un dato impressionante in proposito: al 2009 gli investimenti (misurati a prezzi 2000) erano diminuiti di oltre il 35% rispetto al 1992. E ancora: nel 2003 si accantonavano fondi per ammortizzare il patrimonio tecnico in 16,4 anni: tanto, dunque, si pensava che dovessero funzionare gli impianti prima di cambiarli. Un dato di poco superiore alla media delle maggiori multinazionali. Nel 2010 gli ammortamenti presuppongono che gli impianti debbano durare ben 26,4 anni, mentre i concorrenti esteri sono scesi a circa 13.
 
Un altro aspetto non positivo sottolineato da Giovannini è che la quantità di importazioni tende ad aumentare più dell’export, soprattutto per l’acquisto di beni intermedi. In altre parole, i prodotti che vendiamo all’estero hanno un maggior contenuto di beni che a nostra volta abbiamo comprato in altri paesi invece di produrli in Italia; ciò, se da un lato può contribuire a migliorare la competitività delle nostre imprese esportatrici, dall’altro determina, almeno nel breve periodo, un peggioramento della bilancia commerciale. E’ probabile che in questo abbia un ruolo la delocalizzazione, cioè lo spostamento all’estero, da parte di imprese italiane, di pezzi del ciclo produttivo. Un’ipotesi che ben si accorda con un’altra osservazione del presidente dell’Istat, che meriterebbe qualche riflessione: “In un mondo globalizzato, non è detto che si reinvesta nel paese dove i lavoratori hanno fatto i sacrifici”.
 
Tornando alla produttività, se il dato globale è rimasto fermo non è così per l’industria. Osservano Cipolletta e De Nardis che nel periodo 2003-2007 (cioè fino all’inizio della crisi) la produttività totale dei fattori dovrebbe essere cresciuta del 2% all’anno, tornando sui ritmi degli anni ’90. Ma l’industria in senso stretto ha un peso limitato nel sistema produttivo, il 19%, e il rimanente 81% non ha fatto progressi analoghi. E dunque il problema è lì, nella produttività dei servizi innanzitutto, e in particolare in quelli privatizzati o affidati in gestione ai privati senza che questo fosse accompagnato da liberalizzazioni adeguate e controlli più attenti. In gran parte al riparo dalla concorrenza internazionale, hanno attratto gli investimenti dei grandi gruppi privati che fruiscono in questo modo di cospicue sacche di rendita, a scapito dell’efficienza generale del sistema produttivo.
 
Questa situazione, che Cipolletta e De Nardis documentano nel loro saggio, è del resto ben nota. E dunque non è con le idee di Polillo che si può migliorare la performance della nostra economia. Sarebbe meglio che chi ha responsabilità di governo affrontasse i problemi reali invece di lanciarsi in proposte demagogiche.

(Le dichiarazioni di Andor e Cercas sono state raccolte da Alberto D’Argenzio).

Ma le "pause-pipì" saranno considerate?
Colloquio con il vicepresidente di Confindustria Stefano Dolcetta, che avanza qualche dubbio ma comunque afferma: "Non è questo il problema principale"

 
Stefano Dolcetta, amministratore delegato della Fiamm, è entrato in azienda nel ’74, quando aveva 25 anni, e ha salito tutti gradini fino al vertice. Non si può dire quindi che non abbia esperienza di come funziona un’azienda. La Fiamm, azienda leader nelle batterie per auto e negli accumulatori per uso industriale, ha 3.000 dipendenti nel mondo (è presente in 60 paesi) e 950 in Italia e nel 2010 ha fatturato oltre 500 milioni di euro. Nella giunta del nuovo presidente di Confindustria Giorgio Squinzi Dolcetta è il vicepresidente responsabile delle relazioni industriali
Ha sentito dell’idea del sottosegretario Polillo, una settimana in più di lavoro gratis? E’ questo che serve?
“Non credo che sia la soluzione decisiva. Anche se è vero che ci sono paesi dove si lavora di più”.
A leggere le statistiche non sembrerebbe. Siamo sopra la media Ocse.
“L’Ocse è un’organizzazione serissima e non voglio certo mettere in dubbio i suoi dati. Però, per esempio, nella nostra fabbrica in Canton Ticino si lavora circa 200 ore di più. Inoltre, noi abbiamo formalmente un orario di otto ore, però poi bisogna sottrarre mezz’ora per pausa mensa, altri 10, 15, forse 20 minuti per le cosiddette “soste fisiologiche” e aggiungere l’assenteismo. Io non so come l’Ocse ha contato queste ore, ma sospetto che abbia consideranto l’orario formale, non credo che siano andati a verificare i tempi effettivi delle varie aziende di tutti i paesi. Quindi ci potrebbe essere qualche differenza rispetto alle ore di lavoro reali”.
Ma la pipì la faranno anche i dipendenti degli altri paesi, no?
“Certamente. Ma, tanto per fare un altro esempio, in Austria la mezz’ora della mensa è fuori dalle otto ore di lavoro. Sarebbe interessante vedere dei dati che considerino tutte queste variabili. Però, ripeto: questo è certamente uno dei fattori che entrano in giuoco, ma non mi sembra quello principale. Sarebbe riduttivo concentrarsi solo su questo”.
E quali sono quelli più importanti?
“Noi prendiamo sempre come punto di riferimento la Germania: lì hanno investito, hanno processi produttivi mediamente più avanzati. Una volta i nostri prodotti, alla porta dello stabilimento (cioè senza considerare tutti i problemi esterni) erano competitivi, ma temo che ormai non sia più così. E poi lì 1.000 aziende fanno l’85% dell’export, da noi per arrivare a quella quota ne servono 4.000. Questo significa anche che per le nostre industrie è fondamentale la domanda interna. Non dico per noi, la Fiamm per i tre quarti fattura all’estero. Ma per la maggior parte delle imprese è indispensabile e urgente qualche stimolo alla notra economia. Magari attraverso la pressione fiscale, che da noi è più alta: bisogna ridurla sul lavoro e sulle aziende”.

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