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 Politica Riduci


Sul Colle la nuova frontiera

L'elezione del nuovo presidente è la battaglia fondamentale: deciderà gli equilibri politici del paese, la sorte di Berlusconi e, non meno importante, la direzione che sarà presa in futuro dal Pd, la cui lotta interna è determinante per il risultato. L'esito dirà se avremo ancora o no un partito progressista
(pubblicato su Eguaglianza & Libertà il 2 apr 2013)
Ormai è chiaro a tutti che la battaglia decisiva, quella che orienterà la politica nei prossimi anni, è quella per l'elezione del nuovo presidente della Repubblica. Non solo perché resterà in carica sette anni mentre questa legislatura è di durata incerta, ma con molte probabilità o brevissima o breve. Non solo perché - come si è visto - chi siede al Quirinale è in grado di esercitare un notevole potere nell'indirizzare l'evoluzione della situazione politica. Ma anche perché il modo con cui avverrà l'elezione dirà con quali alleanze sarà governata l'Italia nel prossimo periodo e sancirà vittorie e sconfitte delle correnti interne al Pd, oltre a segnare la sorte di Berlusconi e del Pdl.
Se il prossimo presidente sarà un moderato, come reclama il Pdl, vorrà dire che Berlusconi resta in gioco, anche perché significherà che hanno vinto, all'interno del Pd, quelle componenti che premono per un accordo di governo con il Popolo della libertà. Bersani avrebbe le ore contate, e anche se rimanesse segretario fino al congresso di fatto non conterebbe più nulla. La parola "sinistra" all'interno del partito diventerebbe un termine privo di significato, o più probabilmente dal significato stravolto secondo le mistificazioni di chi cerca di presentarsi per quello che non è.
Pier Luigi Bersani e Giorgio NapolitanoSe invece il presidente sarà un progressista significherà che ha vinto la linea Bersani. Berlusconi non avrà l'ennesimo anomalo scudo che lo protegga dalla tempesta giudiziaria che avanza inesorabile. Secondo logica e Costituzione, il leader dello schieramento con più voti avrà un incarico pieno e - con o senza la fiducia del Senato - sostituirà Monti a Palazzo Chigi. Anche con un governo di minoranza il Parlamento potrà approvare alcune leggi di ripristino della legalità, oltre ad assumere i provvedimenti più urgenti contro l'agonia economica: il famoso programma in otto punti, su cui la convergenza con il M5S dovrebbe essere possibile.

Quali probabilità ci sono che si realizzi l'uno o l'altro scenario? La risposta è tutta interna alle dinamiche del Pd.

Grillo ha lanciato la consultazione on line fra i suoi iscritti sul nome da votare come presidente. Una consultazione di cui ha delimitato i confini, in un modo che, se fosse interpretato alla lettera, escluderebbe tutti gli attuali "papabili" di cui in questo periodo sono circolati i nomi. Scrive infatti Grillo: " Io ritengo che il prossimo presidente della Repubblica non debba venire dalla politica, né ricoprire, o aver ricoperto, incarichi istituzionali. Se infatti diventi presidente dell'ABI come Mussari o presidente della Finmeccanica come Orsi, sei comunque parte del gioco, promosso dai partiti". E dunque: se non deve venire dalla politica si esclude Prodi, che pure, poche righe sopra, sembrava aver avuto più che un'apertura, dove Grillo diceva che Pd e Pdl vorrebbero un presidente che non cambi nulla: "Non un Pertini, ma neppure più modestamente un Prodi che cancellerebbe Berlusconi dalle carte geografiche". Ma anche Rodotà e Zagrebelsky, due nomi che sembrano avere credito tra i grillini, hanno avuto incarichi istituzionali: numerosi Rodotà, da ultimo quello di presidente dell'Authority per la privacy; presidente della Corte Costituzionale Zagrebelsky. Esclusi anche loro? Applicando quei criteri alla lettera, resterebbero candidabili solo persone come Dario Fo e Gino Strada. La prima votazione on line, che designerà una rosa di dieci candidati, ci sarà l'11 aprile. Prima di quella data ci saranno certo ulteriori precisazioni. Due giorni prima del primo voto in Parlamento si svolgerà poi il ballottaggio tra i dieci e il vincitore sarà il candidato che M5S voterà.

Bisognerà poi vedere se il voto M5S resterà obbligatoriamente bloccato su quel nome, anche se apparisse chiaro che non ha possibilità di successo. Sarebbe, ancora una volta, una inutile "sterilizzazione" della terza forza parlamentare, che, cosa assai più grave, spianerebbe la strada a soluzioni altrimenti evitabili. Ma ci potrebbero anche essere mutamenti di rotta, oppure rotture della "disciplina" come per l'elezione del presidente del Senato. Per ora non si sa.

Sulla carta, secondo le stime fatte dal professor D'Alimonte sull'orientamento dei rappresentanti delle Regioni che si aggiungeranno ai parlamentari per l'elezione del presidente, al centro sinistra mancherebbero solo 9 voti quando basterà la maggioranza semplice. Ma tutti gli elettori del Pd voteranno compatti? Ecco un'altra incognita: non si può esserne certi dal momento che, come detto, la scelta del presidente determinerà anche i futuri equilibri all'interno del partito.
Bisogna poi considerare la possibilità che dalle "primarie" grilline esca il nome di un candidato che per il Pd sarebbe difficile non votare, come uno dei tre di cui si parlava più sopra (sempre che i criteri stabiliti lo permettano): Prodi o Rodotà o Zagrebelsky. Se così fosse l'esito sembrerebbe scontato: non nelle prime votazioni, dove comunque serve la maggioranza di due terzi che centro sinistra e grillini non raggiungono per soli 14 voti, ma appena scende il quorum (non stiamo considerando Scelta Civica, che ancora non è chiaro cosa farà ma la cui collocazione naturale è a destra). Ma, ancora una volta, molto dipende da come si muoveranno le correnti del Pd, anche perché Berlusconi non starà a guardare e potrebbe tentare un rimescolamento di carte, per esempio facendo votare dai suoi un candidato Pd "gradito".
Ma altri scenari sono stati aperti dalle dichiarazioni di Bersani di martedì sera. "Se mio nome è un ostacolo, sono pronto a passare la mano", ha detto il segretario del Pd, aggiungendo poi altre due dichiarazioni di rilievo: un nuovo secco rifiuto a governare con il Pdl e l'affermazione di puntare, per il Quirinale, a "una soluzione di larga o larghissima convergenza parlamentare". Quest'ultimo proposito, se non è solo di facciata, è preoccupante e darebbe ragione a Grillo: un presidente gradito o quantomeno accettato dalla destra non potrebbe che essere una persona da cui Berlusconi si senta garantito rispetto ai suoi guai personali. Si ricadrebbe nella prima ipotesi, quella di un presidente moderato, anche se venisse dall'altro schieramento. Il rifiuto al governo con il Pdl, a quel punto, sarebbe solo formale: potrebbe essere questa la linea di minor danno accettata da un Berlusconi sull'orlo del baratro. Fate pure il vostro governo, basta che in cambio io sia salvo. Resta la prima affermazione: che senso avrebbe in passo indietro di Bersani?
Anche qui, potrebbe trattarsi di una disponibilità enunciata ma non effettiva. Se invece lo fosse, si tratterebbe di un altro fattore negativo. Farsi da parte per lasciare il posto a chi? Un Renzi, un Barca o chiunque altro del Pd non avrebbe miglior trattamento da parte dei grillini. Ed è difficile pensare che l'operazione Boldrini-Grasso possa essere replicata per la presidenza del Consiglio. E allora, quale tipo di accordo dovrebbe facilitare la rinuncia di Bersani? Se non con l'M5S, resta solo un'altra possibilità e, come detto, la forma per non smentire l'affermazione n.2 ("mai col Pdl") si trova.
Insomma, le variabili in gioco sono molte, la situazione in continua evoluzione. Ma la partita decisiva si gioca all'interno del Pd: una partita che deciderà se in Italia ci sarà un grande partito che si richiama alla moderna socialdemocrazia o se morirà qualsiasi speranza di avere uno schieramento politico progressista.

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