Tfr o Fondi, scelta con brivido
Dice la teoria che nel lungo periodo l’investimento azionario rende di più. E’ vero, ma non sempre: in passato c’è stato un periodo a rendimento zero durato trent’anni. Poi bisogna considerare da una parte le spese, a volte elevate; e dall’altra il fisco favorevole ai Fondi (ma sarà sempre così?). Il Tfr rende poco ma è sicuro. Alla fine la decisione dipende dalla propensione al rischio
(pubblicato su L’espresso del 10 nov 2006)
Sei mesi – da gennaio – per decidere che cosa fare dei soldi che vengono accantonati per la liquidazione (per chi ce l’ha, naturalmente). Metterli in un Fondo pensione? Lasciarli in azienda, o nell’apposito Fondo dell’Inps che garantirà un rendimento analogo all’attuale? Una scelta niente affatto facile e che comporterà comunque un margine di incertezza, perché entrano in giuoco vari fattori imponderabili ed è quindi impossibile dare una risposta netta: meglio questo o meglio quello. Però si può tentare di esaminare i vari fattori che influenzeranno il risultato: alla fine, ciascuno deciderà secondo le proprie propensioni.
Il rendimento di oggi. I soldi accantonati per la liquidazione (più in breve: Tfr, trattamento di fine rapporto) oggi vengono rivalutati ogni anno di un tasso pari al 75% dell’indice dei prezzi al consumo (cioè l’inflazione) più 1,5 punti percentuali. Ciò significa che con un’inflazione inferiore al 6% (in realtà, se si considera il peso del fisco, intorno al 5) la rivalutazione è reale, cioè ci si guadagna; se l’inflazione è più alta la rivalutazione non tiene dietro alla corsa dei prezzi. Ormai da molti anni siamo abituati a un’inflazione bassissima, intorno al 2%. Ma il problema di queste scelte è che bisogna guardare al lunghissimo periodo: una carriera lavorativa dura dai 25 ai 40 anni e in un tempo così lungo può succedere di tutto. Quaranta anni fa (1966) eravamo in un periodo di stabilità e di inflazione e tassi contenuti; ma trenta anni fa eravamo nella super-inflazione provocata dalla crisi petrolifera (e dalla guerra in Vietnam), e l’inflazione in Italia arrivò a superare il 20% e rimase a tassi a due cifre per molti anni. Con un’inflazione al 20% il Tfr si rivalutava del 16,5 (lordo), quindi c’era una perdita in termini reali. Non è detto che succeda di nuovo in futuro. Ma nessuno può assicurarci del contrario.
Il rendimento del Tfr però è sicuro. Che piova o ci sia il sole, rimane quello, perché è fissato per legge. Inoltre la somma accantonata è garantita anche rispetto a un’eventuale fallimento dell’azienda, perché in quel caso verrebbe pagata da un apposito fondo dell’Inps.
Il rendimento dei Fondi pensione. Dire qualcosa in proposito è ancora più difficile, per vari motivi. Il rendimento del Tfr è uguale per tutti, quello del Fondo pensione è diverso non solo tra un Fondo e l’altro, ma anche per i singoli aderenti allo stesso Fondo. Intanto perché di norma si può scegliere fra varie linee di investimento. In linea di massima ce ne sono almeno tre: una “conservativa” (il patrimonio viene investito tutto o quasi in obbligazioni); una “bilanciata” (parte in obbligazioni e parte in azioni, per esempio 70/30 o 60/40); e una più “aggressiva” (prevalgono gli investimenti in azioni). Può essere applicato il principio del life cycle, con gli investimenti azionari che diminuiscono man mano che aumenta l’età dell’interessato, in modo da ridurre il rischio; ma in definitiva l’ultima parola spetta al sottoscrittore.
Ovviamente, poi, tra i gestori ci sono quelli più bravi e quelli meno bravi. Aderendo ad un Fondo non si ha nessuna garanzia del rendimento, può andare bene o può andare male. O meglio, esistono anche quelli che offrono garanzie di rendimento minimo (non un granché, di solito: più o meno la conservazione del valore rispetto all’inflazione), ma queste garanzie hanno un costo, che ovviamente va a scapito del rendimento.
Il rendimento delle azioni nel lungo periodo. Ma perché, allora, ci si dovrebbe imbarcare in questa avventura? Molti “esperti” risponderanno che è provato che, nel lungo periodo, l’investimento azionario è redditizio, più di quello in obbligazioni e anche più del Tfr. Queste “prove” derivano da osservazioni statistiche sull’andamento delle Borse, confrontato con il rendimento degli altri strumenti di investimento. Si tratta di calcoli basati di solito sulla Borsa americana, che è sempre stata una delle più importanti ed evolute, ed abbracciano periodi lunghissimi, anche un secolo.
Ora, questi calcoli sono senz’altro corretti, ma hanno un punto debole: ci offrono una media, che, com’è noto, può derivare da valori anche molto diversi. In altre parole: sarà certamente vero che nell’arco del XX secolo il rendimento delle azioni è stato abbondantemente vincente; ma lo è stato anche tra il maggio 1971 e il maggio 2001 (sono due date prese a caso), quando il signor Rossi ha versato i suoi contributi nel Fondo pensione? E lo è stato anche tra il gennaio 1975 e il marzo 2004, quando il signor Bianchi è andato in pensione dopo aver versato per tanti anni i suoi soldi al Fondo? Insomma, quando si prende uno specifico punto di partenza e uno specifico punto di arrivo, il vantaggio non è più così sicuro, come dimostra la tabella che segue.
Rendimento zero – Indice S&P500 deflazionato con i prezzi al consumo
dal |
al |
durata |
Agosto 1906 |
Settembre 1928 |
22 anni e 8 mesi |
Settembre 1929 |
Novembre 1958 |
29 anni e 2 mesi |
Dicembre 1968 |
Gennaio 1992 |
23 anni e 1 mese |
Agosto 2000 |
???? |
6 anni e tre mesi (per ora) |
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|
Fonte: elaborazione Il Sole 24 Ore (Fabrizio Galimberti su Plus del 12.3.2005) su dati di archivio e Us Department of Labor – L’ultimo dato è stato aggiornato da L’espresso
Anche la Borsa americana ha avuto dei periodi in cui le azioni hanno reso zero in termini reali. E quanto sono stati lunghi questi periodi? Tantissimo: due di 23 anni e uno di oltre 29. Ci può stare dentro tutta una storia contributiva, in questi periodi. Chi ha avuto la sfortuna (e qualcuno sicuramente c’è stato) di incappare in queste fasi negative, ha ottenuto un ben magro risultato. Il quarto di questi periodi è tuttora in corso, da più di sei anni. Qualche settimana fa, infatti, è stato celebrato il nuovo record storico dell’indice Dow Jones, che ha superato gli 11.727 punti che aveva raggiunto nel gennaio 2000 prima del crollo dei mercati. Ma si tratta di un record in termini nominali, perché, ha notato il Wall Street Journal, considerando l’inflazione del periodo manca ancora un buon 20%.
Riassumendo: il rendimento del Fondo dipenderà dall’andamento dei mercati, dalla bravura o meno dei gestori, dalle scelte individuali di investimento e dal periodo in cui ci si troverà a fare i versamenti. Per molti probabilmente potrà andare bene, e otterranno un rendimento superiore a quello attuale del Tfr; ma, altrettanto probabilmente, per qualcun altro andrà meno bene. Come per i polli di Trilussa, ci sarà chi ne mangia due, ma ci sarà anche chi rimarrà a bocca asciutta.
Ma i Fondi pensione non sono tutti uguali. C’è un’altra questione da prendere in considerazione: quella del costo dell’investimento I Fondi pensione, infatti, hanno delle spese, sia per gli investimenti che per l’amministrazione, e naturalmente queste spese sono a carico del sottoscrittore. A guardarle sul singolo versamento sembrano pochi spiccioli, invece incidono, a volte pesantemente, sul risultato finale. Una ricerca in proposito è stata condotta dal Cerp, centro studi torinese diretto dall’economista Elsa Fornero.
I Fondi si dividono in tre grandi “famiglie”: quelli contrattuali, cioè contrattati fra sindacati e datori di lavoro delle varie categorie; quelli aperti, cioè offerti sul mercato dalle Società di gestione del risparmio; e le polizze individuali, offerte dalla compagnie di assicurazione. Secondo la ricerca del Cerp la convenienza dal punto di vista dei costi è nell’ordine in cui li abbiamo nominati, ma non mancano sovrapposizioni (cioè ci possono essere, per esempio, Fondi aperti più cari di una polizza individuale, ecc.). Esaminare attentamente i costi è un esercizio tutt’altro che superfluo: il Cerp ha calcolato che, sull’arco di 35 anni, il prodotto più caro si mangia, in tasse e commissioni, ben il 59% del capitale che sarebbe maturato investendo la cifra netta; il prodotto meno caro (che è un Fondo contrattuale) solo il 12,5%. Per le polizze la media è al 48%, con la meno cara al 34; per i Fondi aperti media al 37,6 con un minimo al 26%.
Ma non è ancora finita. Arrivati alla sospirata pensione si sarà maturato, con i versamenti, un certo capitale. La legge stabilisce che, volendo, si può riscuotere in contanti non oltre la metà, mentre con il resto si deve stipulare un contratto con un’assicurazione per ottenere un vitalizio. Anche questo contratto, naturalmente ha un costo, che sicuramente non è indifferente perché le Compagnie devono tutelarsi dal “rischio sopravvivenza”. Le tabelle attuariali pongono oggi la vita media intorno agli 80 anni, ma se uno gli fa il dispetto di campare allegramente fino a 100 o più (cosa che non è poi così rara) l’assicurazione deve continuare a versare. E siccome come ogni azienda non vuole fallire, tende a tenersi più in basso possibile con l’importo stabilito.
Ma arriva in soccorso il fisco. Dopo tutto quanto è stato detto, si capisce che sull’adesione ai Fondi circolino molte perplessità. Ma a questo punto il fisco tita fuori un asso: capitale e rendita dei Fondi pensione sono tassati in modo molto più favorevole sia della pensione pubblica che del Tftr.
La pensione pubblica, infatti, paga normalmente l’Irpef; sul Tfr si paga il 23% (fino a circa 120.000 euro); sui frutti dei Fondi pensione, invece, si paga il 15, e anche meno, perché l’imposta diminuisce dello 0,5% per ogni anno di permanenza nel Fondo dopo i primi 15 (con 35 anni, quindi, si arriva al 9% appena). E’ chiaro che questo fatto imprime una forte spinta alla convenienza del Fondo, tanto maggiore quanto più alto è il reddito (perché maggiore è la differenza rispetto all’aliquota che si sarebbe altrimenti pagata). Oltretutto, è persino possibile un “trucchetto”: uno si conserva il Tfr, e poi, un anno prima di andare in pensione, chiede al datore di lavoro di versarlo tutto in un Fondo, in modo da sfruttare la tassazione più favorevole.
Ma anche qui c’è un rischio: chi mi assicura che questa tassazione di favore, di qui a dieci, venti anni, sarà mantenutà? Nessuno. Uno dei prossimi governi potrebbe decidere che questo beneficio è ingiustificato, o – più probabilmente – troppo costoso.
La terza via. Insomma, scegliere è tutt’altro che facile, e alla fine forse sarà decisiva la propensione al rischio di ciascuno. Tanto più che potrebbe esserci anche una terza possibilità. Un gruppo di economisti e sindacalisti ( tra i firmatari Roberto Pizzuti, Luciano Gallino, Gianni Rinaldini, Paolo Leon) ha lanciato un appello perché sia data la possibilità a chi lo vuole di utilizzare il Tfr per aumentare i contributi alla previdenza obbligatoria, come prevedeva il Programma dell’Unione (il testo dell’appello è su www.eguaglianzaeliberta.it). Basterebbe la metà del Tfr, affermano, per aumentare di 10 punti percentuali il tasso di copertura (ossia l’importo della pensione rispetto all’ultimo stipendio), senza contare che ci sarebbe un flusso annuo di un punto di Pil che sarebbe conteggiato per la riduzione del disavanzo pubblico. Ma questa, al momento, è una possibilità solo teorica.
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