Il non profit e il welfare conteso
Lo Stato si ritiri e lasci gestire i servizi sociali al Terzo settore, detassandone generosamente le attività: è la tesi di un libro del presidente della Compagnia delle Opere, Giorgio Vittadini, condivisa da un nutrito agglomerato politico-culturale, da Comunione e Liberazione all'Arci. Nessuno però si preoccupa di dimostrare che sarebbe meglio, si accontentano di affermarlo
(pubblicato su Affari&Finanza il 26 mag 1997)
Forse qualcuno ancora non lo sa, ma c'è una soluzione semplice ai problemi dello Stato sociale, della disoccupazione e persino della carenza di imprenditorialità nel Mezzogiorno: basta consentire all'economia non profit di espandersi, affidandole tutti questi compiti e detassando tutto il detassabile. Mercoledì scorso, a Palazzo Valdina (a fianco della Camera), un autorevole panel di professori e parlamentari lo ha finalmente chiarito, seppellendo lo «statalismo» burocratico, dirigista e incapace sotto una montagna di noncurante disprezzo. Noncurante, perché la disastrosa inefficienza dello Stato sociale era data tanto per scontata che nessuno ha sentito la necessità di dimostrarla.
L'occasione era la presentazione di un libro, Il non profit dimezzato, curato dal professor Giorgio Vittadini, presidente della Compagnia delle Opere, braccio operativo di Comunione e Liberazione. Uno dei maggiori ideologi del non profit, insieme a Stefano Zamagni, economista bolognese, cattolico, amico di Prodi e presidente della commissione ministeriale che ha preparato lo schema per la legge delega fiscale sulla materia.
Gli interventi dei due hanno delineato molto bene obiettivi e aspirazioni di una minoranza a cui, abbastanza inspiegabilmente, le numerose componenti dei mondi del volontariato e dell'associazionismo hanno di fatto conferito un compito di rappresentanza. Era infatti presente anche Nuccio Iovene, coordinatore del «Forum del Terzo settore» - a cui aderiscono un centinaio di organizzazioni - che in nessun modo ha preso le distanze o ha presentato linee diverse rispetto a quelle esposte da Vittadini e Zamagni. E sì che Iovene è vice presidente dell'Arci e ha una storia personale che viene da sinistra.
Vittadini ha innanzitutto lamentato la confusione che quasi tutti fanno tra volontariato, non profit e Terzo settore. Il non profit, ha detto, è costituito da imprese, anche se di tipo specifico, alle quali spesso i volontari partecipano, ma senza che i due concetti siano sovrapponibili. Il presidente dell'Inps Gianni Billia, purtroppo, è arrivato in ritardo e, non avendo ascoltato questa spiegazione, nel suo intervento ha più volte parlato dei «contributi sociali che pesano sul volontariato» (ma i volontari non sono retribuiti, è difficile che ci sia un peso dei contributi sociali: chiedere, per conferma, a Catalano o La Palisse).
Ma neanche «Terzo settore» va bene, ha continuato Vittadini citando Zamagni, perché è una definizione che «accredita l'idea di residualità e di supplenza»: dove lo Stato non arriva e il privato non ha convenienza ad operare. E persino «non profit» è una definizione in negativo, e in parte fuorviante, perché queste imprese i profitti vogliono farli: la differenza con le altre imprese sta nel fatto che non li distribuiscono. Sarebbe meglio chiamarla «economia civile», propone Zamagni.
Questa economia civile, dunque, sarebbe fatta da imprese che sono nel mercato, ma non del mercato, per parafrasare il Vangelo, perché il loro obiettivo non sarebbe quello di massimizzare i profitti anche a scapito della qualità del servizio; che non vogliono affatto essere supplenti o sussidiarie dei servizi sociali pubblici, ma collocarsi accanto ad essi e - in prospettiva - sostituirli nelle loro funzioni, operando nel campo dell'istruzione, sanità, assistenza, cultura, servizi al lavoro e ricreativi. Perché? Perché, afferma Zamagni, sanno farlo meglio delle strutture burocratiche, grazie alla motivazione di chi vi lavora.
«Lo Stato deve ritirarsi», è stato ripetuto più volte. Ma attenzione, qui non si parla dello Stato imprenditore, o dello Stato che soffoca il mercato con i suoi eccessi pianificatori, o dello Stato che intralcia qualsiasi attività con la sua iperproduzione normativa: si parla di affidare a soggetti «autonomi e indipendenti» proprio quei servizi sociali che, soprattutto in Europa, si sono sviluppati con lo Stato moderno. Il problema non è quello di ridurre la spesa pubblica, ma di far gestire l'area dei servizi pubblici dal «privato sociale» (altra definizione cara a Zamagni). Se questo poi abbia un costo minore o maggiore, è questione che non viene affrontata; e la supposta superiorità in termini di efficacia ed efficienza viene sostenuta con argomentazioni filosofico-psicologiche.
È bene ribadire che questa è una delle interpretazioni di cosa debba essere il settore non profit. È però quella che al momento ha più sistematicità e visibilità, perché proprio in questi giorni vari ministri stanno inviando i loro pareri al collega delle Finanze, Vincenzo Visco, per la stesura definitiva dei decreti che, in esecuzione della delega concessa al governo con un provvedimento collegato alla legge finanziaria, definiranno quali e quanti sgravi fiscali debbano essere concessi al non profit e in quali settori queste organizzazioni potranno operare. Negli stessi giorni è iniziata la discussione sul ridisegno dello Stato sociale. Se un tecnico preparato e di valore come Billia fa confusione su questi argomenti, nulla garantisce che altri - compreso magari qualche ministro o qualche suo consigliere - abbia le idee più chiare in materia.
È bene ricordare che le attività di volontariato sono già agevolate da una legge specifica, tanto che nello schema in discussione viene fatto salvo l'eventuale trattamento fiscale di maggior favore già previsto. Qui è di altro che si parla: si parla della possibilità di ridistribuire le risorse per i servizi di welfare vero e proprio. Sarebbe singolare che ci si concentrasse - come di questi tempi si sta facendo - solo sul livello della spesa e si varassero, quasi distrattamente, norme capaci di modificarne in prospettiva la struttura.