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Crocifisso e velo, prepotenze di Stato
Apparentemente opposti, i comportamenti di Italia e Francia sul problema dei simboli religiosi sono entrambi sbagliati da un punto di vista laico

(Pubblicato su Eguaglianza & libertà il 28 gen 2004)

 Le questioni del crocifisso in Italia e del velo islamico in Francia sono esplose quasi contemporaneamente (non per caso, è ovvio) e hanno avuto due risposte apparentemente opposte, ma in realtà ugualmente sbagliate dal punto di vista della laicità dello Stato.
In Italia il tribunale ha fatto come Ponzio Pilato: si è dichiarato incompetente sulla materia e ha rinviato tutto alla magistratura amministrativa. Si è trattato di una affannosa scappatoia: di fronte alla sollevazione di gran parte dell’opinione pubblica che conta (anche laica!) non si poteva dar ragione al pessimo Adel Smith e ordinare la rimozione del simbolo cristiano dall’aula scolastica.

Ma il tribunale non poteva – proprio non poteva – decidere nemmeno in senso contrario. Non solo per la sentenza della Cassazione del 2000 che fa giustamente strame del Regio decreto che aveva messo il crocifisso nelle scuole (e su cui si era basato il pretore che aveva ordinato la rimozione in via provvisoria), ma perché le motivazioni addotte dalla Cassazione richiamano numerose pronuncie della Corte Costituzionale, e nessun tribunale potrebbe evitare di adeguarvisi. La questione, quindi, resta ancora in sospeso e probabilmente si farà in modo di farcela rimanere, in modo da evitare una decisione.

In Francia, per impedire alle studentesse islamiche di portare il velo, si è fatta una legge che proibisce “l’ostentazione di simboli e la propaganda religiosa” nella scuola. Grande prova di laicità? Niente affatto. Solo l’ennesima prova che lo Stato fatica a non impicciarsi delle libere scelte dei cittadini. La legge non è stata fatta per impedire che lo Stato (o qualche sua amministrazione) imponesse simboli religiosi anche a chi non li vuole (come accade in Italia). La legge vieta a singoli cittadini la libera espressione dei propri convincimenti, che per un laico liberale è sacra quando non entri in contraddizione con interessi superiori.

In altre parole. Se ci fossero adepti di una setta che pretendono di andare a scuola nudi, sarebbe legittimo impedirlo (almeno in questo stadio storico-culturale); ma non ci sarebbe bisogno di una legge ad hoc, neanche per strada si può girare nudi. Se ci fossero mussulmane che pretendono di indossare il burqa, anche quello sarebbe legittimo impedirlo, non per motivi religiosi, ma perché bisogna poter identificare una persona (a meno di non poter usare metodi alternativi validi): ma anche alle manifestazioni di piazza, in Italia, è vietato avere il volto coperto.

In questo modo, invece, la Francia ha imboccato una strada assai pericolosa. Già si discute se nella nuova legge non rientrino – e vadano quindi vietate – le magliette con l’immagine di Che Guevara o di qualche altro leader politico, o la kefiah, che come ben sappiamo sono indumenti della moda dei giovani e solo raramente sono indossati dando loro un significato politico. Qualcuno ha persino avanzato il problema della lunghezza delle barbe, perché oltre una certa misura potrebbero indicare l’affiliazione ai Talebani. Come si vede, si fa presto a scivolare nell’assurdo.

E che succede, ci si può chiedere, a una suora cattolica che voglia magari insegnare in una scuola o frequentare l’università: saranno anche loro costrette a togliersi il velo?

In conclusione: lo Stato non deve piazzare crocifissi o altri simboli religiosi nei luoghi pubblici, perché lo Stato rispetta tutte le religioni ma non ne ha nessuna (e ci si risparmi, per cortesia, il penoso argomento del “valore culturale universale”). Ma non si azzardi a proibirmi di portare un crocifisso al collo o come spilla (o il velo islamico, o la kippa ebrea), anche nei luoghi pubblici, né a dirmi come devo o non devo vestire o portare barba e capelli. Di questo passo, può diventare obbligatoria anche la ginnastica quotidiana (ricordate Orwell?).


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