L’insostenibile leggerezza del salario
Il governatore Draghi ha avuto il merito di attrarre l’attenzione su un problema peraltro largamente noto. Ma ciò che stupisce sono alcune delle reazioni che ha suscitato
(pubblicato su Eguaglianza & libertà il 30 ott 2007)
Ci voleva il governatore della Banca d’Italia per svelare all’opinione pubblica il mistero più noto degli ultimi tre lustri: i salari in Italia sono troppo bassi. Erano più bassi della media europea già 15 anni fa. Poi ci fu la grande crisi del ’92-93, la concertazione e il Protocollo che evitarono la bancarotta del paese. La evitarono soprattutto con la moderazione salariale, a fronte della quale il protocollo prevedeva una serie di contropartite rimaste per lo più lettera morta. Se i salari erano bassi prima, figuriamoci ora.
Ma questa storia è, appunto, già nota. Sono invece abbastanza sorprendenti alcune reazioni alle parole del governatore. Innanzitutto, quelle del presidente della Confindustria. “La nostra parte l’abbiamo fatta”, ha detto Luca Cordero di Montezemolo. Ora, si capisce che lui ricopre il ruolo del leader di quelli che per mestiere cercano di pagare il meno possibile, però una frase del genere offende il comune senso del pudore. Poteva dire, per esempio, “sono tempi difficili”, oppure inventare una qualche fase ciclica che, come tale, prima o poi avrebbe invertito la direzione. Invece no, ha detto una cosa che significa “non vi mettete grilli in testa, che più di così non si può”. O forse hanno tutti capito male, e la frase era in realtà “Noi la nostra parte ce la siamo già fatta”, dato che, come si ricorda nell’articolo di Leonello Tronti qui sotto, nei 13 anni successivi al ’93 la quota dei profitti sul Pil è aumentata di circa 10 punti.
Ma c’è un altro tipo di reazione che merita qualche chiosa, ed è quella del professor Tito Boeri. Boeri non è solo un professore della Bocconi e uno dei fondatori della voce.info, se ne parla come di un ascoltato consigliere di Walter Veltroni e addirittura come di un futuro ministro del Lavoro o dell’Economia. E dunque, per una via o per l’altra, quello che dice potrebbe trasformarsi da autorevole opinione personale in linea programmatica di governo (di un governo, si badi bene, di centro sinistra).
Dopo aver distribuito equamente le colpe della situazione fra imprenditori e sindacati, Boeri sostiene che il nocciolo del problema è la riforma della contrattazione. “Una volta entrati nella moneta unica, bisognava cambiare registro, spostando decisamente il baricentro della contrattazione, a livello di azienda, dove si può meglio incentivare la produttività, cercare un’organizzazione del lavoro più efficiente, premiare il merito collettivo e individuale e dove i salari possono meglio riflettere le condizioni del mercato del lavoro locale, facendo aumentare l’occupazione nel Mezzogiorno” (v. il suo articolo su la Voce).
E’ una posizione che Boeri sostiene da tempo. Il contratto nazionale andrebbe abolito, sostituendolo con un salario minimo fissato per legge, e tutta la contrattazione si dovrebbe fare in azienda.
Ora, dal punto di vista teorico questa tesi ha certamente una sua dignità. Nella pratica, però, avrebbe quasi certamente esiti disastrosi. Non è che oggi la contrattazione aziendale non esista. In base al Protocollo del ’93, come si ricorderà, la contrattazione nazionale si limita a far recuperare ai salari l’inflazione (e non sempre c’è riuscita), mentre spetta al livello aziendale trattare sulla divisione dei frutti della produttività. Il fatto è che la contrattazione aziendale, in Italia, riguarda sì e no il 30% dei lavoratori. Possibile che i sindacati siano così pigri o così distratti da dimenticarsi di farla? L’ipotesi più sensata è ovviamente un’altra: la grande maggioranza degli imprenditori non ne vuol sentir parlare, dunque la contrattazione aziendale si fa solo dove il sindacato è abbastanza forte da imporla, ossia nelle grandi aziende. Perché mai, abolendo il contratto nazionale, gli imprenditori dovrebbero diventare più “morbidi” e accettare senza problemi la contrattazione aziendale.
In compenso, un sindacato senza più un ruolo a livello nazionale diventerebbe inevitabilmente un soggetto estremamente debole. Probabilmente si frantumerebbe, la sua rilevanza diverrebbe trascurabile. Avrà considerato questo problema, il professor Boeri? O pensa magari che sarebbe meglio così? Finirebbe la dialettica sul lavoro, tutto resterebbe affidato alle scelte degli imprenditori. Che, come abbiamo visto, “la loro parte l’hanno fatta”.