I vescovi e la coscienza dei cattolici
La nota dei vescovi sul comportamento dei politici cattolici afferma due cose in modo diretto: noi possediamo la verità; quindi dovete fare quello che diciamo noi. E un’altra cosa in modo indiretto: i cattolici non hanno una coscienza propria
(30 mar 2007)
“L’ampio dibattito che si è aperto intorno ai temi della vita e della famiglia ci chiama in causa come custodi di una verità e di una sapienza che traggono la loro origine dal Vangelo”. Esordisce così la nota diffusa il 28 marzo dalla Conferenza episcopale italiana (Cei). E il dibattito appena richiamato è già finito: se sono loro i custodi della verità (neanche “gli interpreti”: i “custodi”!) non c’è più niente da discutere, resta solo da obbedire.
E che debbono obbedire, tutti i cattolici ma in particolare quelli che siedono in Parlamento, i vescovi non solo lo dicono chiaro, lo impongono: “Il fedele cristiano è tenuto a formare la propria coscienza confrontandosi seriamente con l’insegnamento del Magistero e pertanto non può appellarsi al principio del pluralismo e dell’autonomia dei laici in politica, favorendo soluzioni che compromettano o attenuino la salvaguardia delle esigenze etiche fondamentali per il bene comune della società”. Quali siano queste esigenze, naturalmente, lo stabiliscono i vescovi, in base all’affermazione di cui sopra: sono o non sono i “custodi della verità”?
E dunque, “i politici e i legislatori cattolici (…) devono sentirsi particolarmente interpellati dalla loro coscienza, rettamente formata, a presentare e sostenere leggi ispirate ai valori fondanti della natura umana”. La “coscienza rettamente formata” è quella che obbedisce ai vescovi; e i “valori fondanti”, nonché “la natura umana”, sono ciò che i medesimi stabiliscono. Cosa che fanno in modo del tutto arbitrario: non c’è nessuna logica nell’affermare che una regolamentazione dei patti di convivenza danneggerebbe la famiglia.
Ma è inutile polemizzare con chi possiede la verità. Va però sottolineata una cosa che dal documento dei vescovi emerge con forza. La Chiesa non fa che appellarsi alla “libertà di coscienza” di fronte a disposizione di legge non condivise. Ma, come emerge chiaramente da questo documento, non ha affatto in mente la coscienza individuale, che ogni uomo responsabile – anche se non è cattolico – interroga prima di compiere una scelta impegnativa. La coscienza dev’essere “rettamente formata”, ossia deve necessariamente consigliare ciò che vogliono i vescovi. Il documento sancisce – non che sia la prima volta – che il cattolico non ha una coscienza propria. Dei suoi atti non deve rispondere al suo Dio: deve rispondere al Papa.