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 Industria

I signori dei media
Le dimensioni e le attività dei più importanti gruppi italiani della carta stampata e della tv. Indovinello: di chi è quello di gran lunga più grande?
(Pubblicato su Eguaglianza & libertà il 27 set 2003)

 

Sono pochi i grandi gruppi nel settore dei mass media in Italia. E sono “grandi” solo relativamente a questo settore nel nostro paese, perché non sono nemmeno lontanamente comparabili a giganti come il gruppo tedesco Bertelsmann, quello britannico Pearson, agli americani Aol-Time Warner o Disney o alla multinazionale (che ha le sue roccheforti più importanti in Australia, Usa e Gran Bretagna) che fa capo a Rupert Murdoch.
 
Per contare i leader del mercato in Italia bastano quasi le dita di una sola mano. Si tratta dei gruppi Rcs (Rizzoli-Corriere della Sera), L’Espresso, Mondadori e, distaccati, Monrif e Caltagirone nell’editoria su carta; e di Rai e Mediaset nella televisioni. I primo gruppo, manco a dirlo, è quello che fa capo a Silvio Berlusconi, che unisce il controllo di Mediaset a quello della Mondadori, controllata con il 48% dalla Fininvest, con un fatturato complessivo di quasi 3,8 miliardi di euro.
 
Come è noto, le attuali leggi di regolamentazione vietano l’intreccio giornali-tv (è permesso, invece, possedere tv e periodici), mentre la riforma proposta dal ministro per le Comunicazioni Maurizio Gasparri – attualmente in discussione in Parlamento – rimuove questo vincolo, lasciandone solo uno indiretto e riferito alle “risorse del mercato”, di cui ciascun soggetto non potrà superare il 20%. E' un minestrone che comprende tutto, dai ricavi delle vendite alla pubblicità, dal canone Rai alle telepromozioni, fino ai ricavi delle affissioni.
 
Per comprenderne l'assurdità basta fare un paragone con il normale modo di procedere dell'Autorità Antitrust in altri settori: in passato è stata aperta un'inchiesta sulla produzione di determinati tubi di un particolare materiale, per decidere se in quel segmento di mercato vi fosse o no un abuso di posizione dominante. Qui invece si vogliono considerare tutte insieme stampa e tv, radio e cinema, libri e manifesti pubblicitari. E i nuovi limiti, come molti hanno osservato, permetterebbero a Berlusconi di comprarsi anche, per esempio, tutto il gruppo Espresso. Inutile ogni commento.
 
Vediamo le dimensioni di questi gruppi, in base al fatturato. I dati sono quelli dei bilanci 2002 approvati a marzo 2003 dai rispettivi consigli di amministrazione. Solo tre superano la soglia dei 2 miliardi di euro: le due televisioni (Rai con 2624,9 milioni e Mediaset con 2316,1) e Rcs (2015 milioni). Seguono il gruppo Mondadori (1458,8) e L’Espresso (963,7), mentre il gruppo Monrif (ossia Monti-Riffeser, che controlla la Poligrafici Editoriale) è a 339,120 e Caltagirone a 227,120. Si tratta, beninteso, di cifre più che rispettabili, ma, appunto, non siamo di fronte a giganti. Tanto Rizzoli che Mondadori, inoltre, raggiungono quei ricavi aggiungendo ai giornali e periodici anche l’editoria libraria e scolastica.
 
Sommando i fatturati di questi che sono i gruppi più importanti si arriva a circa 10 miliardi di euro: ossia, tanto per fare un paragone, ad appena due terzi del fatturato del solo gruppo Murdoch, che raggiunge i 15 miliardi di dollari.
 
Ha ragione, allora, chi sostiene che gli attuali limiti anti-concentrazione andrebbero allentati, per permettere che qualcuno di questi gruppi continui a crescere fino a dimensioni comparabili con i colossi mondiali? No, si tratta di una tesi assurda e pericolosa (per il pluralismo dell’informazione). Data anche la specificità del settore mass media, inevitabilmente legato alla lingua del paese in cui opera, è evidente che in economie di dimensioni più grandi anche le imprese sono più grandi, senza contare il vantaggio competitivo dei media che “parlano” inglese o spagnolo, le due lingue più diffuse nel mondo occidentale (e non solo). Inoltre in molti casi i giganti dei media sono multinazionali, ossia crescono anche perché si proiettano fuori del loro mercato domestico.
 
In quasi tutto il mondo occidentale, del resto, le norme anti-concentrazione sono più severe e restrittive che in Italia. Negli Stati Uniti, per esempio, nessuna televisione può superare un terzo dell’audience, e gli incroci proprietari non sono permessi nemmeno tra giornali e radio (a meno che i due mezzi non siano diffusi in ambiti territoriali diversi). Da poco il Senato - a maggioranza repubblicana - ha bocciato una modifica della legge, sostenuta da Bush, che voleva ampliare questi limiti.
 
In Italia, le due televisioni leader coprono oltre il 90% dell’audience, una situazione senza paragoni in Europa, come ha documentato una ricerca dell’Antitrust: in Francia i due gruppi televisivi più importanti raggiungono insieme il 74% dell’audience, in Germania il 66, in Gran Bretagna il 65, in Spagna il 54%. Una situazione ben diversa da quella della carta stampata, dove, come ha ricordato il presidente della Fieg (l’associazione degli editori) Luca Cordero di Montezemolo, i primi sette gruppi coprono solo il 50% del mercato.
 
Ma vediamo quali sono, nel settore dei quotidiani e periodici d’informazione, le forze in campo.
 
Il gruppo Rcs possiede il Corriere della Sera, il più diffuso quotidiano italiano (650-700.000 copie), e anche il più venduto quotidiano sportivo, La Gazzetta dello Sport (che, tra l’altro, con le società collegate Rcs Sport e Rcs Sport Events organizzano per esempio il Giro d’Italia di ciclismo). Dal settembre 2001 pubblica anche il quotidiano City (che fa parte della free press, cioè della stampa a distribuzione gratuita) diffuso in sette città.
 
Rcs Libri è tra i leader del settore in Italia, anche nel ramo Scuola (con Fabbri, Bompiani, Etas, Sansoni, Nuova Italia e Tramontana per l’ambito giuridico-economico) e delle cosiddette “opere collezionabili” (in quest’ultimo ramo è tra i leader del mercato anche in Inghilterra, Francia, Spagna e Portogallo). Rcs ha inoltre acquisito uno dei maggiori editori francesi, Flammarion, e possiede il 53% della spagnola Unedisa a cui appartiene El Mundo, secondo quotidiano spagnolo. Alla Rcs Periodici (partecipata al 30% dall’editore tedesco Burda) fanno capo 7 riviste femminili, 5 maschili, 6 familiari, 13 della Darp (joint venture al 50% con la De Agostini) e 4 della Sfera, società acquisita nel 2000. Il gruppo è coinvolto in vario modo in oltre 100 testate all’estero.
 
Più concentrato sull’informazione in senso stretto il Gruppo Espresso, il cui asset più importante è il quotidiano La Repubblica che insegue da vicino il Corriere per numero di copie diffuse. Ci sono poi il settimanale L’espresso, 15 quotidiani locali (i più importanti sono Il Tirreno, Il Piccolo di Trieste, La Nuova Sardegna, Il Mattino di Padova) e un bisettimanale, che nel complesso raggiungono circa altre 500.000 copie di diffusione. Ci sono poi due mensili, due trimestrali e una guida annuale (tra questi Limes, Micromega, Le Scienze).
 
Il gruppo è poi molto forte nel settore radiofonico, dove possiede tre emittenti: la più importante, Dee Jay, è la seconda radio nazionale per ascolti, dopo Rai Uno; all’inizio del 2001 è stato lanciato un canale tv satellitare con lo stesso nome. Importante anche la presenza in Internet, con Kataweb spa, mentre Repubblica.it è stabilmente al primo posto tra i portali di news per utenti e pagine viste.
 
 Quanto a Mondadori, non possiede quotidiani: e non potrebbbe, perché come si è detto è controllato (48%) dalla Fininvest che possiede anche Mediaset. Il possesso contemporaneo di Tv e periodici è invece consentito dalla legge. Ma nei periodici il gruppo è una vera potenza: con 50 testate copre – secondo dati della stessa società – ben il 40% del mercato italiano, contro il 14% di Rcs in questo segmento, realizzando circa il 60% del suo fatturato.
 
 Le testate più importanti sono Panorama, il più diffuso settimanale di attualità, e Grazia, leader fra i femminili. La divisione Libri (che vale circa il 20% del fatturato) possiede case come Le Monnier, Edizioni di Comunità, Elemond, Electa, Frassinelli, Sperling & Kupfer. Da ricordare il mensile Focus (in joint venture con la Gruner und Jahr del gruppo Bertelsmann) che è uno dei successi editoriali più clamorosi degli ultimi anni, avendo raggiunto in poco tempo una diffusione di circa 800.000 copie.
 
Anche se distaccati quanto a fatturato, bisogna poi ricordare gli altri due gruppi di rilievo. Monrif controlla Il Resto del Carlino, La Nazione, Il Giorno e QN (Quotidiano Nazionale, realizzato grazie a sinergie con gli altri tre giornali), che insieme superano le 410.000 copie di diffusione. Al gruppo Caltagirone fanno capo invece Il Messaggero e Il Mattino di Napoli (circa 380.000 copie complessive), oltre al gratuito Leggo che si avvia ormai a sfiorare il milione di copie diffuse. Una citazione per La Stampa, il quotidiano di proprietà del gruppo Fiat, che è nel gruppo dei più diffusi (è al quinto posto, con poco meno di 400.000 copie) e autorevoli.
 
Quanto a Il Sole 24 Ore, il quotidiano di proprietà della Confindustria è il più diffuso foglio di informazione economico-finanziaria non solo in Italia, ma in Europa (con le sue 400.000 copie supera anche il Financial Times) e alla società editrice fanno capo, oltre all’agenzia Radiocor, a Radio 24 e Ventiquattrore.tv, numerose pubblicazioni settoriali specializzate (fisco, scuola, enti locali, sanità, ecc.).
 
Se questi sono i più importanti, i quotidiani in Italia, secondo i dati di uno studio a vasto raggio realizzato dalla Deloitte & Touche per la Fieg e presentato in marzo, a fine 2001 erano 73. Nel 2002, secondo stime ancora non definitive, hanno venduto complessivamente 5.888.000 copie, quasi un milione in meno del record (6.808.500) del 1990. Il fatturato del 2001 è stato di oltre 3 miliardi di euro, in calo dello 0,8% rispetto all’anno precedente e l’utile complessivo appena di 146 milioni. Del resto, delle 61 imprese editoriali esaminate ben 28 hanno chiuso il 2001 in perdita (erano state 20 su 59 l’anno precedente).
 
L’andamento negativo è stato causato soprattutto dal calo della pubblicità, che è ormai la voce più importante per gli introiti dei quotidiani: sul totale dei ricavi, le vendite contribuiscono per il 38% e la pubblicità per il 50% (i dati sono sempre della ricerca Deloitte per la Fieg e si riferiscono ai bilanci 2001). Ma per i giornali maggiori quest’ultima percentuale è ancora più alta: arriva al 59,5% per i nazionali e al 56,3 per i pluriregionali (come sono, per esempio, quelli di Monrif e Caltagirone) e addirittura al 60,9% per gli economici.
 
Ma questa fondamentale voce del bilancio è contesa alla stampa da un vorace concorrente, che è la tv: sul totale della torta pubblicitaria, la tv (anzi, le due tv Mediaset e Rai, che assorbono oltre il 90% della spesa nel loro segmento) ne mangia oltre il 50%, la quota più elevata rispetto a tutti gli altri paesi avanzati (con l’eccezione del Portogallo, dove si sfiora il 60%).
 
Anche questo dato fa capire come sarebbe rischioso, per il pluralismo dell’informazione, permettere alle televisioni di espandersi nel settore dei quotidiani: le acquisizioni sarebbero probabilmente a senso unico, vista la sproporzione delle forze in campo.
 
Sui due giganti che si spartiscono il mercato televisivo si può fare un interessante confronto. I ricavi, come si è detto, sono abbastanza vicini, 2,6 miliardi di euro per la Rai (compreso il canone) e 2,3 per Mediaset. Se però si passa al margine operativo lordo, quello della Rai è stato nel 2002 di 166 milioni, quello di Mediaset di quasi 1354, ossia otto volte tanto; l’utile prima delle tasse è 42 contro 497 (quasi 12 a 1 per Mediaset) e l’utile netto 4,5 contro 362, cioè quello di Mediaset è stato oltre 80 volte quello della Rai. Questo per ottenere una audience praticamente identica, e senza che la qualità dei programmi sia clamorosamente a favore dell’azienda pubblica. Questi dati, per chi non si beva la favola dei costi del servizio pubblico, indicano una vergogna nazionale e una dissipazione di risorse pubbliche che dura da anni.
 
Per concludere questo colpo d’occhio sul settore dei media in Italia, due osservazioni di carattere generale. La prima è sull’abnormità del duopolio televisivo (che oggi, per giunta, si avvicina al monopolio vista la doppia veste del presidente del Consiglio). E la seconda sul fatto che, nel settore dell’informazione quotidiana, è quasi assente la figura dell’editore “puro”, che non abbia cioè altre attività economiche in altri settori. Il problema del conflitto di interessi, insomma, non riguarda solo Berlusconi, ma la grande maggioranza di coloro che in Italia posseggono giornali. Sarebbe un motivo in più per affrontare il problema; ma ad essere realisti, è invece probabilmente un motivo in più per non affrontarlo.


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