Vince la lobby del 5 per mille
E' stata ripristinata, nella Finanziaria, la possibilità di destinare una parte delle tasse pagate a una serie di soggetti: un successivo decreto stabilirà chi può aspirarvi. Sono 250 milioni buttati: l'anno scorso i possibili beneficiari erano circa 40.000, tra cui Guardia padana, amici del peperoncino, circoli del golf
(15 nov 2006)
Torna il cinque per mille. L’emendamento alla Finanziaria che lo ripristina è stato presentato martedì dal relatore, Michele Ventura, e il testo rinvia ad un successivo decreto che stabilirà le modalità delle richieste, i soggetti ammessi e le modalità di riparto delle somme. L’onere previsto per il 2008 è di 250 milioni di euro.
Come si ricorderà, la possibilità di destinare il 5 per mille delle proprie imposte a un’associazione, Fondazione o ente locale a propria scelta era stata introdotta, per iniziativa dell’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, con la denuncia dei redditi di quest’anno. Il testo originario della Finanziaria di quest’anno non la prevedeva, ma le pressioni del mondo del “non profit” – e non solo di quello – sono state tali che il governo ha deciso di ripristinarla.
Se si riesce ad andare oltre il “buonismo”, la decisione è da giudicare pessima. Nella prima versione i soggetti ammessi tra i destinatari dei fondi erano quasi 40.000 e accanto ad associazioni di volontariato e centri di ricerca c’era la Guardia padana, gli amici del tamburello e persino circoli del golf (vedi l’articolo in proposito). Cristina De Luca (Margherita), sottosegretario alla Solidarietà sociale, assicura che i criteri saranno più restrittivi e che si pensa di escludere enti locali e Fondazioni. Ma anche se si limitasse il campo ad associazioni ed Onlus (la sigla sta per “Organizzazioni non lucrative di utilità sociale”) non solo si resterebbe vicini ai 30.000 soggetti, ma si continuerebbe a rischiare che vengano finanziati gli “amici del peproncino” o la Federazione italiana squash. In altre parole, un modo per dissipare 250 milioni, permettendo che vengano distribuiti a pioggia, pochi euro per soggetto utili al massimo per pagarsi una pizza, e senza un vero controllo sulla “utilità sociale” dei beneficiari.
Dietro questa scelta insensata non c’è solo l’idea di ingraziarsi alcuni gruppi sociali, ma anche, come si diceva nell’articolo citato, una pseudo-cultura. Quella secondo cui i singoli cittadini sarebbero più capaci dello Stato di individuare le organizzazioni meritevoli di essere sostenute e quindi è opportuno che decidano direttamente come impiegare almeno una parte delle tasse che pagano. E’ uno dei principi che sta alla base della cosiddetta “economia sociale” e su cui hanno trovato una convergenza i cattolici che da sempre sostengono il principio della sussidiarietà (un’organismo di ordine superiore non deve fare ciò che può esser fatto da uno di ordine inferiore: quindi lo Stato non deve invadere il campo delle Regioni, queste delle provincie, e così via fino alla famiglia e al singolo cittadino); i liberali teorizzatori dello “Stato minimo” (in pratica lo Stato dovrebbe occuparsi solo di giustizia, sicurezza, difesa e politica estera); e una parte della sinsitra che ci vede una possibilità di espansione per le cooperative.
Questa “terza via” (o quarta, fate voi) non ha alcuna base teorica valida e non ha neanche dato grandi prove nella pratica. Però va tanto di moda e interessa a un sacco di persone che mirano a spartirsi un po’ di finanziamenti pubblici. E’ del tutto legittimo per loro chiedere: la cosa sorprendente è che si dia loro retta.
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