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 Lavoro

E i lavoratori diventarono più poveri
Negli ultimi dieci anni i salari hanno perso terreno. Per alcuni settori e categorie in termini assoluti, ma per tutti in termini relativi, dato che oggi rappresentano una quota più bassa del Pil
(Pubblicato su L'espresso del 10 dic 2003)

Qui finisce che scoppia un nuovo ’69, dice Marcello De Cecco. Economista e storico dell’economia, De Cecco non è noto per essere particolarmente incline all’ottimismo, ma stavolta la vede proprio nera. “E speriamo di non vedere un altro Bava Beccaris”, aggiunge. Bava Beccaris è un generale passato alla storia perché nel 1898, in piena “crisi di fine secolo”, fece sparare cannonate sugli scioperanti.
 
Gli scioperi selvaggi di Milano sono stati condannati da tutti, ma persino i commentatori più moderati hanno riconosciuto, magari con una certa sorpresa, che le buste paga dei manifestanti sono davvero da fame. Salari di “lavoratori garantiti”, mica di immigrati clandestini o giovani precari e saltuari. L’Italia come l’America dove esistono i working poors, cioè coloro che, pur lavorando, restano sotto la “soglia di povertà”? Ma allora la politica dei redditi non ha protetto i redditi dei lavoratori?
 
Sono passati giusto dieci anni dall’accordo del luglio ’93 fra governo, sindacati e Confindustria. Quell’accordo prevedeva, in cambio della concertazione delle politiche economiche, la moderazione salariale per battere l’inflazione, risanare l’economia e le finanze pubbliche e riagganciare gli altri paesi europei. Non bisogna dimenticare che l’accordo arrivò pochi mesi dopo la gravissima crisi del settembre ’92, in cui l’Italia fu a un pelo dal fare la fine che ha fatto l’Argentina. Alcuni studi hanno ricostruito che cosa è successo alle retribuzioni in questi dieci anni. Vediamo che ne viene fuori.
 
Nella media generale, le retribuzioni contrattuali (vedi il glossario) hanno subito qualche perdita, ma modesta, rispetto all’inflazione. Gabriele Olini, del centro studi Cisl, calcola che tra il ’93 e il 2001 sono aumentate del 24,8%, contro un’inflazione del 26,2. Un dato molto simile lo forniscono Lorenzo Birindelli e Agostino Megale, che insieme a Giuseppe D’Aloia hanno svolto un’ampia ricerca per l’Ires-Cgil ("La politica dei redditi negli anni ’90", Edesse 2003): a seconda dei comparti, gli aumenti sono stati sotto l’inflazione di uno 0,3 - 0,6 % medio annuo (solo quello del commercio e turismo risulta in guadagno). Se si guarda invece alle retribuzioni di fatto, che comprendono anche la contrattazione aziendale ed altre voci (v. glossario), l’aumento, sempre nella media generale, riesce a raggiungere e in alcuni casi a superare (non di molto) l’inflazione.
 
Tutto bene, dunque? Oltre all’”inflazione percepita”, più alta di quella calcolata dall’Istat, dovremo parlare anche di “salario percepito”, più basso di quello che risulta dai conteggi? Il problema è un po’ più complesso. Non solo perché, come si diceva, le medie generali, come sempre, appiattiscono differenze tra un settore e l’altro, e dunque gente che guadagna relativamente di meno ce n’è. Ma anche perché bisogna considerare altre due componenti piuttosto importanti. La prima è che i calcoli sulle retribuzioni di fatto non riguardano tutti i lavoratori, anzi, nemmeno la maggioranza. La contrattazione di secondo livello (ossia quella decentrata, a livello aziendale o territoriale) si fa praticamente solo dove il sindacato è forte. Restano fuori quasi tutte le piccole e medie aziende e anche interi comparti, quelli caratterizzati da quel tipo di unità produttive.
 
Un’indagine Istat del ’95-96 (citata da Olini) rilevava che la contrattazione aziendale si era svolta solo nel 9,9% delle imprese con più di 10 addetti che occupavano circa 3,2 milioni di lavoratori. E se aveva riguardato l’80% degli addetti alla costruzione dei mezzi di trasporto, il 75 nel settore elettricità, gas e acqua e il 52 nell’intermediazione finanziaria, si scendeva al 26% nel settore legno-mobilio e addirittura all’11 e 10 % nel turismo e nelle pelli e calzature. Nel complesso, avevano fruito della contrattazione aziendale il 44,4% del lavori del nord-ovest, il 37,5 del nord-est, il 34 del centro e il 34,3 del sud e isole. Si può dire dunque che per quasi due terzi dei lavoratori c’è solo la retribuzione fissata dai contratti nazionali, più gli scatti d’anzianità e, per un numero imprecisato, qualche premio di fine anno elargito autonomamente dai datori di lavoro.
 
In secondo luogo, se si prende la “torta” del reddito e si va a vedere quanto sono grandi le fette che vanno ad ogni componente si scopre che la quota delle retribuzioni è notevolmente scesa. Secondo Birindelli e D’Aloia, dal 36% dell’80-82 al 29,5 del ’96-2001. Secondo l’economista Geminello Alvi dal 47% del 1990 al 40 del ’99 (diverse metodologie che includono o meno determinate componenti danno cifre differenti, ma la sostanza, come si vede, non cambia). Alvi aggiunge che la quota di rendite e pensioni passa nello stesso periodo dal 22 al 31% e sale anche la quota dei profitti netti, in particolare fra il ’94 e il ’99 (dal 24,5 al 28,6%).
 
Un certo numero di lavoratori, dunque, si è impoverito in termini assoluti. Ma tutti i lavoratori si sono impoveriti in termini relativi, perché a loro va una quota minore del reddito nazionale. Perché è successo?
 
“L’accordo del ’93 – dice il senatore Enrico Morando, dell’ala “liberista” dei Ds – va giudicato nel suo complesso. Doveva stabilizzare l’economia e in questo è stato determinante, quindi il giudizio non può che essere positivo. Ma per il suo stesso funzionamento si è rivelato poco vantaggioso per i lavoratori dal punto di vista economico. Intanto l’inflazione effettiva, che quasi sempre è stata più alta di quella programmata, si recupera alla tornata contrattuale successiva, quindi con almeno due anni di ritardo, e questo comporta una perdita del potere d’acquisto. Inoltre i guadagni di produttività sono stati recuperati solo in parte e solo da alcuni. Era un compito affidato alla contrattazione decentrata, che però non è riuscita a decollare. Di certo, specie a partire dal ’96-97, si è creata un’enorme “questione salariale”, che in qualche modo bisogna risolvere”.
 
La contrattazione nazionale, dunque, ha il compito solo di conservare le retribuzioni reali, cioè di difenderle dall’inflazione; i guadagni dovuti alla produttività (v. glossario) dovevano invece essere acquisiti con la contrattazione decentrata, ma quest’ultima è poco praticata: ecco dunque uno dei motivi per cui la quota di reddito dei lavoratori scende. Secondo Birindelli e Megale la produttività è cresciuta di oltre l’1% medio annuo (che cumulato fa una bella cifra) in più delle retribuzioni. Simili anche i dati di Olini, secondo cui fra il ’93 e il 2001 le retribuzioni di fatto per occupato sono aumentate in termini reali dello 0,5% l’anno e la produttività dell’1,4.
 
Ci sono però anche altri motivi, che con il funzionamento dell’accordo del ’93 non c’entrano nulla. “E’ successo in tutto il mondo”, osserva De Cecco. “Dopo la fine dei cambi fissi, nel 1971, le imprese hanno dovuto imparare a fare i conti con nuovi tipi di shock e non c’è dubbio che in gran parte vengano fatti assorbire dalla manodopera. A questo aggiungiamo che gli ultimi anni, specie per Europa e Giappone, sono stati di crisi, quindi con un mercato del lavoro poco vivace, e il generale movimento dall’industria ai servizi, dove in genere i salari sono più bassi. E poi c’è un ceto sempre più grande di persone, tra i lavoratori autonomi e i professionisti, in grado di imporre i propri prezzi, protetti dalla concorrenza. Anche in Germania, specie dopo l’introduzione dell’euro, stava succedendo qualcosa di simile, ma il governo è riuscito a calmierare il fenomeno con una pesante “moral suasion”. Da noi non è stato fatto”.
 
Anche Tito Boeri, economista della Bocconi, sottolinea che il fenomeno non è solo italiano e richiama fattori strutturali. “E’ un fenomeno che va di pari passo con una diminuzione di peso dei sindacati in termini politici, ma anche numerici. In parte è anche una conseguenza dell’ingresso nell’Unione monetaria. Quando non sono più possibili svalutazioni della moneta per recuperare competitività, aumenti eccessivi dei salari, almeno nei settori esposti alla concorrenza internazionale, hanno come conseguenza la distruzione di posti di lavoro. In queste condizioni i sistemi a contrattazione centralizzata, come quello italiano, diventano più fragili, meno capaci di catturare quote del Pil: gli stessi sindacati sanno che devono tenersi bassi nelle richieste per non creare disoccupazione”.
 
Una situazione non facile da modificare. Lo stesso Boeri osserva che “l’unica via d’uscita è una contrattazione più decentrata, che però avviene solo dove il sindacato è più forte”, quindi si rischierebbe che una parte più o meno consistente dei lavoratori non abbia più nemmeno quei modesti aumenti che la contrattazione nazionale garantisce. “Aumenterebbero anche le differenze retributive tra settori e aziende. In realtà dovrebbe rimenere un livello nazionale che però si tenga molto basso, e nel contempo bisognerebbe riuscire a diffondere di più la contrattazione decentrata”.
 
Tutti sottolineano, comunque, che la moderazione salariale non solo è stata determinante per il risanamento, ma ha avuto anche un altro importante effetto positivo, ossia l’aumento dell’occupazione. Negli ultimi anni, in particolare dal ’96, nonostante una crescita del Pil (fattore fondamentale per l’aumento di posti di lavoro) particolarmente bassa e inferiore anche agli altri paesi europei, l’occupazione è aumentata più che in questi ultimi e a ritmi che non si vedevano da trent’anni. Anche, certo, per la maggiore flessibilità contrattuale che è stata introdotta (il “pacchetto Treu” è appunto del ’96), cosa che ha a sua volta contribuito ad abbassare la media delle retribuzioni, sia perché questo tipo di lavoratori sono in linea di massima meno pagati, sia perché spesso sostituiscono lavoratori anziani a stipendi più alti. Con la crisi del ’92-93, ricorda la relazione della Banca d’Italia, fu espulso più di un milione di lavoratori, rimpiazzati in seguito da giovani con paghe più basse.
 
Detto tutto questo, resta che le retribuzioni in Italia sono mediamente più basse che negli altri paesi europei comparabili e che la quota sul reddito è scesa più che altrove. Cosa si può fare? “Un governo – conclude Morando – deve sempre muoversi con cautela per non ledere l’autonomia delle parti sociali, ma può favorire delle prassi di contrattazione rispetto ad altre. Certo, ci vuole la concertazione: se n’è accorto persino questo governo, che dopo aver pensato di poterne fare a meno ora sta tentando di ricostruire il rapporto che ha distrutto. Io credo che un futuro governo di centro-sinistra non possa che porsi l’obiettivo di favorire una riscrittura del patto del ‘93”.


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